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L'OPINIONE

Brancaccio, gli scugnizzi, le scommesse

Le surreali vicende di Napoli sono diventate oggetto di dibattito mainstream. Il pubblico locale ha tifato contro Brancaccio e Travaglia perché aveva scommesso sugli avversari, creando un clima inaccettabile. Il torrese si è sfogato via social, ma il problema non è il betting: è l'utilizzo che ne viene fatto, soprattutto laddove il tessuto sociale è più debole.

Riccardo Bisti
28 marzo 2024

Da anni circola una frase che è diventata una sorta di meme permanente. “Poteva succedere ovunque, e invece...”. Ci hanno realizzato anche una pagina social, goliardica, in cui si raccontano le stranezze che accadono nella città di Napoli. Il concetto è stato riesumato in questi giorni durante la Napoli Tennis Cup, Challenger che ha riportato il professionismo racchettaro all'ombra del Vesuvio dopo il papocchio del torneo ATP del 2022. “Surreale” è il termine giusto per descrivere quanto accaduto a Raul Brancaccio e Stefano Travaglia. Situazioni fragorose, che colpiscono la pancia e dunque diventano la notizia di giornata nel momento in cui Jannik Sinner – dall'altra parte dell'oceano – ha normalizzato la sua presenza nelle semifinali di un Masters 1000. Il 6-4 6-2 rifilato a Tomas Machac è talmente di routine che passa in secondo piano rispetto alle scene che arrivano da Napoli. In sintesi, il pubblico presente sul campo intitolato alla Casata D'Avalos ha fatto il tifo per due francesi, Pierre-Hugues Herbert e Arthur Gea, contro gli italiani Brancaccio e Travaglia. Nel primo caso c'è l'aggravante della provenienza di Brancaccio, nato a Torre del Greco (quasi) 27 anni fa e a cui – nonostante abbia trascorso molto tempo in Spagna, sin da giovane – è rimasto un marcato accento campano. Il motivo di certe scene, rapidamente diventate virali sui social media, è chiaro: buona parte dei presenti avevano scommesso sulla vittoria del giocatore straniero.

L'interesse (economico) personale è andato oltre il presunto dovere morale di tifare per il giocatore di casa, in questo caso addirittura concittadino. I filmati non mentono: il clima durante i sette matchpoint sciupati da Brancaccio era, ripetiamo, surreale. Difficile usare aggettivi diversi. Ogni volta che Herbert ne cancellava uno, nei modi più strambi, si sentiva un boato che sembrava di essere a Parigi o Lione. Anzi, a Marsiglia, secondo molti una sorta di Napoli francese. Fenomeni del genere accadono da sempre, o meglio, da quando la ludopatia può essere scaricata sulla tastiera virtuale di uno smartphone. Con la normalizzazione del betting online, il fenomeno delle scommesse è diventato parte integrante dello sport. E il tennis si presta alla perfezione: possiede un palinsesto enorme e – non essendo uno sport a tempo – garantisce continue oscillazioni di quote. Possiamo soltanto immaginare quanto pagasse una vittoria di Herbert quando Brancaccio era a un punto dal successo. In Italia è il secondo sport più remunerativo per i bookmakers, creando un giro d'affari di 3,2 miliardi di euro (il 75% avviene online). Chiunque abbia seguito un torneo dal vivo avrà notato scene del genere, più o meno clamorose. Prima della miniaturizzazione dei dispositivi, capitava di vedere decine di spettatori a bordocampo armati di computer, pronti a cliccare dopo ogni singolo punto.

«La piaga delle scommesse sta rovinando anche il tennis. Così non si può andare avanti, proprio non si può. E noi giocatori siamo esposti, indifesi» 
Raùl Brancaccio

Visto l'enorme danno d'immagine, le istituzioni hanno vietato la pratica. Prima è stata creata la Tennis Integrity Unit (oggi International Tennis Integrity Agency) per vigilare sul fenomeno, sia tra i giocatori che tra il pubblico. Per qualche anno, le agenzie di scommesse non hanno potuto sponsorizzare i tornei. Poi è successo che il Covid abbia messo in ginocchio l'economia, dunque il denaro degli allibratori è tornato a fare comodo. Quando Andrea Gaudenzi è salito alla guida dell'ATP, il betting ha ripresoa essere partner dei tornei del circuito, sia pure con qualche limitazione: i nomi delle agenzie possono comparire soltanto nei tornei 250 e 500, e mai vicino alle panchine dei giocatori o al seggiolone dell'arbitro. I Masters 1000 possono associarsi soltanto alle società di Daily Fantasy. Mossa per nulla sorprendente, giacché Gaudenzi ha lavorato per Bwin dal 2006 al 2011 e ben conosce il potenziale economico del fenomeno. Per questo, lo sfogo di Brancaccio dopo il 3-6 7-5 6-0 di lunedì scorso dovrebbe restare lettera morta, soprattutto quando qualcuno coglie l'assist e sostiene che l'ATP dovrebbe intervenire. Intervenire su cosa, esattamente? Fino a prova contraria, scommettere sul tennis è un'attività legale e come tale non può essere vietata. Allo stesso tempo, non si può imporre al pubblico di tifare per il giocatore di casa. Anzi, esistono già norme a tutela dell'integrità del gioco. Il Tennis Anti-Corruption Program è un malloppone che impedisce qualsiasi tipo di attività illecita a giocatori, coach e persone correlate.

Allo stesso tempo, è vietato scommettere in tempo reale sugli spalti, così come diffondere i dati degli incontri. In ogni torneo ci sono cartelli e manifesti che avvertono il pubblico. Tali norme, tuttavia, non possono impedire di scommettere fuori dall'impianto e poi entrare a fare il tifo per un tennista che – per lo spazio di un match – diventa l'equivalente di un'azione in borsa. E poi è quasi impossibile arginare la possibilità di scommettere live, dal campo. I telefonini permettono di farlo in totale serenità. Non tutti sanno che l'ITIA invia un proprio uomo quasi a ogni torneo. Si tratta di figure di varie nazionalità, in borghese, armate di potenti macchine fotografiche che immortalano gli spettatori con atteggiamenti sospetti. Nei casi più gravi, o quando vengono riconosciuti volti noti, gli spettatori vengono cacciati. Faccenda delicata: una norma privata entra in conflitto con un sistema legislativo nazionale che non impedisce di scommettere. Sarebbe interessante conoscere l'orientamento di un giudice se uno spettatore cacciato dal campo facesse causa all'ATP, agli organizzatori, all'ITIA. Tanta teoria serve per capire che il fenomeno non è in alcun modo arginabile, se non in modo (molto) parziale. Ma poi si incrocia con la realtà, portata all'estremo dal Challenger di Napoli. Quello di Brancaccio deve essere preso per quello che è: uno sfogo (comprensibile, a tratti condivisibile), che però non affronta il succo del problema. Un problema che va ben oltre il tifo per un giocatore straniero per intascare la bolletta.

Lo sfogo di Raul Brancaccio, nato a Torre del Greco ma residente in Spagna

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Gli scugnizzi che stanno affollando il TC Napoli sono l'emblema di una città tanto stupenda e popolata da gente meravigliosa, quanto piena di problemi e incline alla furbata più o meno legalizzata. Senza tirare fuori esempi legati alla malavita, basta fare un giro per le strade di Napoli e accorgersi che è strapieno di veicoli con targa polacca. Non è frutto dell'immigrazione, bensì un sistema per abbattere i costi assicurativi e garantirsi una sorta di impunità in caso di sinistri. Le auto con targa straniera (ottenuta tramite apposite agenzie) sono la risposta ai costi per l'assicurazione auto, che a Napoli sono tra i più alti d'Italia. E ci sarebbero decine di esempi di questo tipo. Non c'entra col tennis, ma serve per contestualizzare il fenomeno degli scommettitori di Villa Comunale, spesso giovanissimi, magari studenti o baby disoccupati che vedono nelle scommesse la possibilità di guadagnare qualcosa, senza sapere che nel 98% dei casi (statistiche alla mano) è una strategia perdente. Incuranti dello stigma social e delle parole di Brancaccio, hanno fatto lo stesso mercoledì sera. La risonanza è stata inferiore perché Stefano Travaglia è di Ascoli Piceno, la giornata era stata spezzettata dalle interruzioni per pioggia, e in quel momento giocava Sinner a Miami. Eppure il tifo per Arthur Gea è stato talmente vigoroso da spingere il francese (vincitore col punteggio di 6-3 6-4) ad abbracciare alcuni spettatori, manco giocasse nel circolo di casa.

Si può esprimere indignazione per l'accaduto? Certamente. Allo stesso tempo, tuttavia, è impossibile risolvere il problema col proibizionismo posticcio. Magari un ispettore ITIA (se presente a Napoli, non sappiamo) avrebbe potuto allontanare quei ragazzi. Ma con quale motivazione, se in quel momento specifico non stavano scommettendo? Solo perché tifavano contro un italiano? E poi – per onestà – va detto che spesso il pubblico e gli scommettitori stessi sono presi in giro dai giocatori e addirittura dagli ufficiali di gara. Non parliamo certo di Brancaccio, formatosi all'ombra di David Ferrer, emblema di onestà, lavoro e integrità. Ma i registri ITIA raccontano quante persone siano state squalificate per aver violato le regole. Non solo giocatori che hanno ceduto alla corruzione, persino giudici di sedia che tardavano l'aggiornamento dei risultati per trarne un vantaggio personale. In altre parole, il problema esiste ed è giusto parlarne. Ma non è con demagogia e populismo che si risolve. Le scommesse in sé non sono il male, anzi. Il problema è l'utilizzo che ne viene fatto. Ogni riflessione dovrebbe partire da qui. Più educazione e cultura saranno sviluppate, sin dall'infanzia, più sarà difficile vedere certe scene.