The Club: Bola Padel Roma
INTERVISTA ESCLUSIVA

Adriano, 70 anni: «Mi chiedono ancora del Roland Garros... Sono passati più di 40 anni, eddai, non mi rompete i…»

Il più grande tennista italiano della storia si racconta tra passato, presente e futuro: i trionfi del '76 ma anche Federer, Sinner, il tennis facile, quello a tempo, Satana…

Federico Ferrero
9 luglio 2020

Adriano Panatta ha settant’anni e riesce a sorriderne col suo affrontare la vita di lato, mai troppo sul serio, mai troppo per scherzo. Sotto sotto, però, non se capacita. «Vedrai quando capiterà a te: hai quarant’anni e puoi ancora fare un sacco di cose. Poi, un giorno, ti svegli e ne hai settanta e dici: ma già?». Ha trascorso i mesi di chiusura coatta nella sua nuova casa, la città di Treviso, lontana qualche costellazione dalle primavere romane degli anni Settanta: «E sono stato molto ligio. Sono uscito pochissimo, giusto per fare la spesa. Come quando giocavo un match e le cose non andavano bene: stavo lì e non mollavo, aspettando che passasse la nottata. Prima o poi, passerà anche questa. Non l’ho vissuta malissimo perché, con l’età, mi sono scoperto casalingo».

Settanta, dunque. Sono arrivati troppo in fretta?
«Il fatto è che non te ne accorgi. Pensa anche solo agli anni Duemila: non sembrano ieri? E invece sono già vent’anni… È così, è la vita».

Il Panatta agé è diventato malinconico?
«Lo sono sempre stato, tranne sul tennis. Non guardo le foto di 40 anni fa dicendomi “Oh, i bei tempi andati, quando ero giovane”. Quello no. Alle cose del passato penso non dico con distacco, ma come a un periodo bello che ho vissuto, ma mica l’unico. Ce ne sono stati altri, di tempi felici. Oddio, felicità è una parola grossa: quella è un attimo, sono momenti che ti capitano e durano pochi secondi». 

Eppure la gente vuole rivangarli, ama sentirti parlare ancora di quell’Adriano là. Il 1976, Roma, Parigi, la Davis, la veronica, la maglietta rossa, la barca a vela e il ciuffo, le belle donne.
«Sapessi quanti mi chiedono ancora che memorie ho del Roland Garros... Ma onestamente è un problema loro, non mio. Quando giocavo, mi spiaceva vedere che si accanivano sulla mia vita, su dove andavo, cosa facevo, cosa dicevo. Mi chiedevo se non avessero altro a cui pensare. Da quando ho smesso, pian piano è arrivato ‘sto vizio dell’amarcord. Comunque ho iniziato a rispondere la verità: non me lo ricordo più. Sono passati più di 40 anni, eddai, non mi rompete i…»

Giovanni Giudici, un poeta ligure, scrisse un testo dedicato alla sua nuova casa, messa su a settant’anni, perché “incominciare è il nostro unico modo di esserci”: sei d’accordo?
«Direi di sì. Certo, quando penso a quanta vita ho alle spalle e a quella che ho davanti, mi chiedo quanto a lungo potrò campare. Certi progetti a lunghissima scadenza non li posso più fare. Però mi sento ancora in forma: la testa funziona, il fisico non mi dà tante noie. Toccando ferro…»

È per incominciare, che hai comprato un circolo di tennis?
«Per non annoiarmi. Mi annoio spesso e facilmente, infatti non mi fermo mai: le idee, il lavoro, anche questo club che ho rilevato. Esaurisco gli interessi con altri interessi. Non è che mi piaccia solo iniziare: amo anche vedere le cose finite. Ma è un po’ come quando ho vinto i tornei grossi: non è che mi dicessi “Ecco, adesso ne voglio altri quattro”. Avevo dimostrato qualcosa e poteva anche andare bene così». 

Difatti hai smesso piuttosto presto.
«Non presto, giusto. Ho fatto 15 stagioni piene da professionista, sono stati anni di soddisfazione, quando non ne avevo più me ne sono andato. Ma anche se non avessi più vinto niente, dopo il ’76, non mi sarei spaccato la testa e non avrei giocato fino all’età del bastone. Però rispetto moltissimo chi fa diversamente da me: Federer, per esempio, che gioca ancora e a 40 anni vuole vincere un altro Slam. Evidentemente è il suo modo di essere. Anche Borg viveva di tennis: solo che a 26 anni si è esaurito».

Raccontaci il perché e il percome dell’accademia Panatta.
«Il nome è da decidere, il resto no. Una volta tanto, mi andava di fare una cosa un po’ più stanziale, dopo aver vissuto e lavorato sempre lontano da casa. L’impianto si chiama Sporting Zambon, sta a Treviso ed era all’asta da due o tre anni, ma andavano sempre deserte. Me lo sono andato a vedere e ho fatto questa scelta: comunque è il mio mondo, non mi sono messo a fare cose che non conosco. E poi vedo tante accademie da cui mi pare non esca nessuno: è facile chiamarle così, difficile è crescere un ragazzo che diventi giocatore».

A Treviso ci vivi con la tua compagna. Da Roma alla provincia veneta, non è stato traumatico?
«Direi di no. Ci vivo da cinque anni, il mio spirito romano rimane intatto ma qui sono molto a mio agio. Mi piace la dimensione della città, che è amministrata molto bene. Civile, pulita, non hai mai la sensazione di trascuratezza, la gente mi vuole bene. A venti minuti c’è Venezia, che è la città che mi affascina di più al mondo. A nord c’è Cortina, poi la marca trevigiana è bellissima. Insomma, ci sto bene».

Hai adottato anche lo spritz?
«Mmm, no. Preferisco il vino, i cocktail non mi piacciono granché».

Cosa ti manca di più, oggi, di Roma?
«Eh, ci sono nato. Ogni volta che ci torno sono da un lato rapito dalla sua bellezza, dall’altra incazzato per come è tenuta. Qui è una dimensione diversa: mi sposto in bicicletta. Non esiste, per dire, il parcheggio in doppia fila: ogni tanto ne cerco uno perché ne ho quasi nostalgia, ma non lo trovo». 

Torniamo al club.
«Ho trovato un partner importante come Philippe Donnet, caro amico e Ceo di Generali, che si è esposto personalmente e mi aiuterà molto sul lato di gestione economica, mentre io sarò il general manager. Abbiamo fatto il progetto, chiesto un finanziamento e dovremmo iniziare i lavori a fine estate. Prevediamo di aprire nel settembre 2021. Rifaremo tutto: avremo otto campi da tennis di cui sei coperti, due fissi e quattro con palloni pressostatici. Quattro campi da padel coperti, piscina. C’è un immobile di 1.500 metri quadrati che verrà ristrutturato totalmente con due palestre, una per il fitness e una sala muscolazione, sei spogliatoi, gli uffici, la clubhouse con bar e ristorante e una Spa di 450 metri quadrati. Ristorante vero, eh».

Non ne dubito. Cucinerai tu? Sei famoso per gli spaghetti sciuè sciuè
«Magari no, però qualche occhiata alla cucina la darò senz’altro, voglio che si mangi bene».

In Italia il boom dei circoli c’è stato a partire dagli anni Settanta, grazie a te e agli altri campioni di quel periodo. Però, ormai, molti sono in crisi nera. Non esiste più la società di allora, la gente non li usa più come centro di aggregazione. Non ti spaventa remare controcorrente?
«Lo so, che le cose sono cambiate. Ma a me piace l’idea di fare un circolo che sia quella cosa lì, voglio dire, che uno ci venga anche solo a pranzare, o a bersi un caffè e fare due chiacchiere. Vorrei fosse un posto per tutti. Per i tennisti, e infatti i campi voglio che siano perfetti; ma anche per il padel, che gioco e trovo molto divertente. Per le signore che amano il fitness, il pilates, yoga. L’idea è: dal bambino alla mamma al papà, per tutta la famiglia e da vivere tutto il giorno. Non voglio un circolo mordi e fuggi. Mi piacerebbe recuperarlo, quello spirito del club di una volta».

«Odio il corri e picchia: botte di dritto, botte di rovescio e corse forsennate, per riuscirci servono qualità fisiche e forza mentale straordinarie e mica tutti ce l’hanno. Chi diffonde quel tipo di gioco, crea molti infelici» Adriano Panatta

E in campo? Ho letto che vuoi far giocare “alla Panatta”. Niente rovescio a due mani, gioco classico. Non è un po’ rigido, come schema?
«Forse mi sono spiegato male. Mica ce l’ho con il rovescio a due mani. Ho solo detto che a una mano è più elegante e che, se posso, lo insegno così. Ma se arriva un bimbo che naturalmente attacca l’altra mano e colpisce bene, non sarò certo io a staccargliela, per carità di Dio. Quello che volevo dire è che nella mia scuola vorrei insegnare un tennis facile e voglio che i miei collaboratori la pensino come me, e non come si fa altrove. Perché le cose facili sono per certi versi le più complicate da insegnare, ma anche quelle che rendono felici. Se un ragazzino inizia a giocare, cresce, si diverte e ha tante soluzioni in campo, difficilmente smetterà. Non voglio insegnare un tipo di gioco frustrante, cioè quello che oggi fanno quasi tutti».

Il corri e picchia, sappiamo che lo hai in odio.«Quello. Che poi arrivi a 15-16 anni e non vai avanti: ma non è una questione ideologica, è che per fare quel tennis lì, botte di dritto e botte di rovescio e corse forsennate, servono qualità fisiche e forza mentale straordinarie, e mica tutti ce l’hanno. E intanto la vita va avanti, hai nuovi interessi, amicizie, amori: se sul campo hai solo frustrazioni e non ti piace quello che fai, e magari non vinci neanche, smetti. Chi diffonde quel tipo di gioco, secondo me, non fa il bene della maggior parte dei giocatori. Crei molti infelici».

Panatta ha battuto Borg sei volte in match ufficiali e ci ha perso 10. Però è l'unico ad averlo sconfitto a Roland Garros, nel 1973 e nel 1976. Il primo match lo hanno giocato nel 1973 a Valencia, ottavi di finale, Panatta vinse 6-2 6-1. Borg aveva 17 anni.

Però se quasi tutti hanno abbandonato il bel tennis antico e giocano “alla Djokovic”, per intenderci, ci sarà un motivo. Forse perché il tennis vincente è diventato questo e non più quello di una volta.
«Ho capito. Ma questo tipo di gioco che va per la maggiore, di spinta da fondocampo e basta, costa grande fatica: se ci pensi bene, poi, gli italiani sono sempre stati giocatori tendenzialmente vari e fantasiosi. Prima c’eravamo noi, poi sono arrivati Camporese, Canè e gli altri, fino a oggi: Fognini è tra i tennisti di maggior talento di tutto il mondo, o no? Sinner, a mio parere, è un altro talento pazzesco. Berrettini, nella sua modernità, nell’essere un metro e 95 e tirare cannonate col servizio e sul dritto, non è uno che si metta lì dietro a fare palleggi da trenta colpi: cerca il vincente, la smorzata, va a rete. Il dovere di un istruttore è quello di insegnare tutto: forse esistono solo il dritto, il rovescio e correre? No: c’è il servizio. C’è il gioco di rete. C’è il back: per noi era il pane quotidiano, ma serve ancora oggi. Vedo troppi giocatori che non lo sanno fare. E se non sei capace a usare le variazioni, ti mancherà sempre qualcosa».

Coltivare il talento, più che il rendimento. E se si perde giocando bene?
«Secondo me bisogna partire da un altro dato: quanti bambini possono aspirare a fare i professionisti? Uno su centomila che iniziano? Ecco. Quindi, se ti accorgi di avere per le mani un soggetto speciale, allora è sensato seguirlo, fare progetti. Ma a tutti devi insegnare a ridere in campo, a divertirsi. I bambini, se non si divertono, si rompono le palle in fretta e vanno a fare altro. Questo è il mio concetto».

Quindi tornerà, in qualche modo, il tennis che giocavi tu?
«Quello no, non tra i professionisti. L’impostazione del gioco è completamente diversa. Ci sarà sempre un’evoluzione, i giocatori saranno sempre più alti e potenti. Al contrario: credo tireranno sempre più forte e che, alla fine, forse non si giocherà neanche più, tanto la palla andrà veloce. Chi lo sa. Onestamente non ci ho pensato molto, a come sarà il tennis del futuro. In verità non me ne frega niente. Tra vent’anni non ci sarò più, per cui…».

«Mi stupisce Federer perché, su ogni colpo, può fare tre cose. Gli altri hanno una scelta e mezza, lui tre. Il problema è che spesso sceglie la più difficile. Roger vede il campo come un drone, non è mica come gli altri» Adriano Panatta

È vero che quando vedi i campioni di oggi ti prende lo sbadiglio?
«No, è che la maggior parte li vedo e so già cosa faranno. Io mi appassiono se guardo uno che mi sorprende: che poi può essere il colpo di talento, l’improvvisazione, ma mi stupisce anche un gesto atletico assolutamente straordinario. Nadal, per dire, con la sua forza mentale di provare a vincere sempre, a tutti i costi. E poi, certo, mi stupisce Federer. Sempre. Perché, su ogni colpo, lui può fare tre cose. Gli altri hanno una scelta e mezza, una cosa fatta benissimo oppure una fatta così così. Lui, tre. Semmai, il problema è che spesso sceglie la più difficile. Roger vede il campo come un drone, non è mica come gli altri». 

È una bella immagine, Roger come un drone. Ma pure lui, più prima che poi, smetterà di volare.
«Ce ne faremo una ragione, arriveranno altri». 

Altri chi?
«Boh, non lo so. Shapovalov gioca molto bene. Solo che è matto, forse un po’ troppo. Guardo molto, tra i giovani, Jannik Sinner: mi ha colpito, più di tutto, come sta in campo. Si vede che è il suo territorio, ed è lì che vedi il giocatore. Ci sono altri della sua età che giocano benissimo, però sono meno padroni della situazione. A 18 anni, lui è già un giocatore, i suoi coetanei sono al più tennisti che colpiscono molto bene la palla».

Adriano Panatta con la sua attuale comapgna, l'avvocatessa trevigiana Anna Bonamigo, 66 anni

E Berrettini? È già top ten e anche lui ha quella maniera scanzonata, un po’ panattiana di affrontare i match.
«Può darsi che la romanità abbia toccato il suo carattere, che in effetti mi somiglia un po’: tra il dissacratorio, l’ironico e il cinico. Mi piace».

Non prendersi troppo sul serio. È un bel modo di vivere.
«Più che altro è il mio modo di essere. Non credo si possa insegnare, dipende dall’animo che hai. Come quando hai i tempi comici, tipo i miei amici Villaggio e Tognazzi: o li hai, o non li hai. Il troppo serioso non funziona, il troppo ilare neanche; nel mezzo, secondo me, ci si sta bene. Anche perché uno che non ride mai è un fesso, ma chi ride sempre è un beota. Che poi, essere così non significa non rimuginare, anzi».

Tu a cosa ripensi?
«Alla mia carriera ci ho pensato mille volte. Con l’esperienza che ho oggi, mi è capitato di dirmi che se avessi giocato quel torneo, se mi fossi allenato di più in quel periodo, magari… Però non so se avrei espresso il mio gioco, se davvero mi fossi forzato a fare quello che non volevo».

Magari uno tra Sinner e Berrettini sarà il prossimo te, e farai in tempo a vederlo vincere uno Slam.
«Lo spero. Perché è giusto che sia così, anzi, abbiamo anche aspettato troppo. E poi a me proprio non me ne frega un cavolo se un italiano domani vince il Roland Garros: va bene per tutti, per i ragazzi che giocheranno di più a tennis, per il movimento. Figuriamoci se spero che non ci riescano. Anche perché il mio tennis era tutta un’altra cosa. Come la Davis…»

Ahia.
«Il problema è che si continua a far gestire il tennis a gente che va bene a fare il manager della Coca-Cola, ma che col nostro sport non c’entra niente. È gente che non ha conosciuto Laver, Rosewall, Newcombe, Ashe. Che avevano un senso del tennis. La Coppa l’hanno stravolta, rovinata, non frega più niente a nessuno. Ma come si fa?»

«La finale di Wimbledon 2019 tra Federer e Djokovic, in quella partita ci stava proprio Belzebù in campo. Secondo me poteva essere l’arbitro di quell’incontro, Satana. È stata un’ingiustizia, l’apoteosi del diavolo» Adriano Panatta

Durante il lockdown si è anche parlato di unificare i sindacati ATP e WTA e di fare un governo unico del tennis insieme alla ITF. Intanto Parigi ha spostato avanti il torneo, Wimbledon lo ha cancellato, uomini e donne hanno calendari di ripartenza diversi, ognuno fa per sé.
«E non ci riusciranno mai a mettersi d’accordo. C’è la stessa probabilità che in Italia si faccia un partito unico. Ma è anche normale, ognuno fa il suo interesse. Sono logiche diverse. Comunque, il problema è un altro: troppo spesso si va dietro alle televisioni e agli sponsor, e non va bene».

Stanno anche provando l’esperimento del tennis a tempo.
«Ah sì, l’ho visto. Possono pure tirare su la rete e usarla per fare i calci di rigore, ma non è tennis. La bellezza del tennis è che tu, fino all’ultimo punto, non hai vinto. Se giochi a tempo e vai avanti dieci minuti, e chi sta avanti ha vinto quando suona la campanella, ecco, quella è la più grossa cazzata interplanetaria che soltanto uno che ha quel cognome lì poteva inventare».

Mouratoglou, dici? Lui ha spiegato che è una cosa parallela al Tour, che non lo vuole soppiantare ma provare nuove strade per coinvolgere e appassionare.
«Invece io dico che dovrebbe aprire una pizzeria o un negozio di fiori, piuttosto che rompere le palle a noi (ride). Le cose a tempo vanno bene per i superdilettanti, non per i professionisti. Se tu vai 5-0, nel tennis, hai vinto? No. Questa è l’essenza del gioco. E la cosa ridicola è che gli danno pure retta, parla in televisione e lo ascoltano! Se io stessi al posto di Djokovic, Nadal o Federer, gli direi: ma su, dai, non ci rompere le scatole». 

È la bellezza ma anche la maledizione: il tuo amico Kim Warwick sarà finito in analisi, dopo che gli annullasti undici match point a Roma. Guillermo Coria ha avuto due match point per vincere il tuo torneo, Parigi, e l’avrebbe strameritato. Invece…
«Invece ha perso. Vuol dire che non ce l’ha fatta, stop. Ci ho anche scritto un libro, sul diavolo nel tennis. E adesso vogliono fermare il diavolo? Ma lasciatelo lavorare!»

Come con Federer lo scorso anno in finale a Wimbledon? 8-7, 40-15 e servizio.
«Ecco, in quella partita ci stava proprio Belzebù in campo. Secondo me poteva essere l’arbitro di quell’incontro, Satana. E sai perché? Perché quella lì è stata un’ingiustizia. Federer aveva fatto più punti, più vincenti, più tutto, e aveva pure giocato meglio. Ha avuto due palle match al servizio, e ha perso. L’apoteosi del diavolo. E Muratore, come si chiama, vorrebbe fare il tennis a tempo».