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L'ADDIO

Tsonga bumayè! Tsonga bumayè!

È stato il Muhammad Alì del tennis. Possente come un pugile, agile come un felino, Jo Wilfried Tsonga è l'unico ad aver battuto tutti i Fab Four in uno Slam. A 37 anni, acciacchi e logorio lo convincono a dire basta. Ma prima vuole giocare il suo ultimo Roland Garros.

Riccardo Bisti
7 aprile 2022

Non è una semplice suggestione, dettata dall'impressionante somiglianza con Cassius Clay. Per anni, Jo Wilfried Tsonga è stato per davvero il Muhammad Alì del tennis. Un peso, una responsabilità che ha saputo sostenere. È stato il miglior francese del dopo Noah, unico ad aver raggiunto almeno i quarti in tutti i tornei del Grande Slam. La costruzione del personaggio è nata molto prima che lui nascesse, prima ancora che papà Didier conoscesse mamma Evelyne. Era il 30 ottobre 1974 e il futuro papà Tsonga si trovava alla Stade Tata Raphael di Kinshasa, in mezzo alla folla che gridava Ali bumayè! durante il match più famoso nella storia del pugilato, la Rumble in the Jungle tra Cassius Clay e George Foreman. Arrivava da Brazzaville: anche con i disastrati mezzi di trasporto dell'ex Zaire, non poteva non attraversare il fiume Congo e coprire i 20 chilometri che lo separavano dall'evento. E pazienza se il giorno dopo avrebbe saltato la scuola. Ottimo giocatore di pallamano, si sarebbe trasferito in Francia, nella patria dell'automobilismo (Le Mans) e avrebbe messo al mondo Jo Wilfried il 17 aprile 1985, quando Noah era una leggenda e Michel Platini un mito. Avrebbe voluto chiamare il figlio Ray Sugar, in onore a un altro grande pugile (il peso medio Leonard). La madre mise un paio di veti: no al nome, no al pugilato per il figlio. E le mamme, si sa, sanno essere molto convincenti. Facevano entrambi i maestri di tennis, gli Tsonga, e portarono il figlio presso un piccolo club a Coulaines, alla periferia di Le Mans. Niente privilegi: solo lezioni collettive.

Fast Forward: Melbourne, Rod Laver Arena, 24 gennaio 2008. Quella sera, Tsonga ha giocato la partita più bella della sua carriera. Un devastante 6-2 6-3 6-2 contro Rafael Nadal, travolto da 49 colpi vincenti e incapace di procurarsi una palla break nei primi due set. Le fattezze di un pugile e l'agilità di un felino gli costruirono il personaggio, dando il là al titolo che abbiamo scelto per raccontare il suo ritiro. Un po' banale, forse, ma azzeccato per descrivere le sensazioni trasmesse in quasi ogni sua vittoria. 467 match vinti nel circuito maggiore, forieri di 18 titoli ATP, tra cui due Masters 1000 (Parigi Bercy 2008 e Toronto 2014). Senza contare l'argento olimpico a Londra 2012, in coppia con Michael Llodra, e il trionfo in Coppa Davis 2017. Fu il giocatore-simbolo della squadra di Yannick Noah, anche se non provò l'ebbrezza di vincere il punto decisivo (l'onore toccò a Lucas Pouille). Quando vinceva, Tsonga sembrava davvero il Cassius Clay del tennis: con la sua Babolat volteggiava come una farfalla e pungeva come un'ape. Proverà a farlo negli ultimi quattro tornei della sua carriera: Monte Carlo, il Challenger di Aix-en-Provence, Lione e il suo amato Roland Garros. Tsonga ha comunicato l'addio con un bel video pubblicato sul canale YouTube della sua All-In Academy, maxi-progetto inaugurato qualche anno fa insieme a Thierry Ascione. Sarà il suo impiego dopo il ritiro.

Quando vinceva, Tsonga sembrava davvero il Cassius Clay del tennis: con la sua Babolat volteggiava come una farfalla e pungeva come un'ape.
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Jo Wilfried annuncia il ritiro al prossimo Roland Garros

Nel salotto di casa gli fanno compagnia un giornalista, la moglie Noura El Shwekhm e uno dei suoi due figli. “La testa dice che potrei giocare per tutta la vita, ma il corpo mi ricorda che non posso andare oltre”. In quasi 20 anni di carriera, in effetti, il fisico gli ha presentato parecchie cambiali. Gli hanno asportato metà del menisco destro nel 2008, poi ha avuto problemi a spalla, schiena e addominali. Poi ancora il ginocchio, che l'ha costretto a operarsi nell'aprile 2018 e gli ha fatto perdere sette mesi. Franato fuori dai primi 200, l'anno dopo aveva avuto la forza di tornare tra i top-30 prima di ripiombare in dolori cronici alla schiena. È ripartito quest'anno e ha scelto il Roland Garros per prendersi l'ultima volta il proscenio. “Lo giocherò per la 15esima volta, è il torneo che rappresenta al meglio quello che ho fatto. La decisione è presa: volevo fermarmi dove volevo io, in un momento in cui posso ancora scendere in campo”. Quando un tennista annuncia l'addio, il cronista è combattuto: elencare i suoi successi o lasciarsi andare a un ricordo emotivo? Nel caso di Tsonga, le due parti si devono mischiare. Perché Tsonga ha rappresentato tanto. Insieme a Del Potro e Wawrinka, è stato l'unico a dare l'impressione di poter battere i mitici Fab Four (o Big Three più uno, come preferite). Gli è mancata la zampata, ma è l'unico ad averli battuti tutti e quattro in uno Slam.

Come quel primo turno dell'Australian Open 2008, quando superò Murray e si prese lo status di top player, inaugurando la mitica esultanza dopo ogni vittoria, un balletto con i pollici dietro la schiena. Un po' da calciatore, come se avesse segnato allo Stade de France. Quell'anno sarebbe andato per la prima volta in Congo per conoscere il nonno paterno. “Appena sono atterrato, ho avvertito qualcosa di speciale – raccontò – il clima era perfetto, ma gli odori erano speciali. Non sono mai stato così bene. Mio nonno vive in una specie di baracca: avrei voluto comprargli una casa, ma non ha voluto”. Energia pura, da cui ha attinto a piene mani nei quarti di Wimbledon 2011, quando rimontò due set di svantaggio a Roger Federer per prendersi una bella semifinale. Lo avrebbe bloccato Djokovic, poi si sarebbe ripetuto l'anno dopo prima di perdere contro Murray. Maledetti Fab Four, verrebbe da dire. I francesi lo hanno amato alla follia, ammirati dalla sua gentilezza d'altri tempi e affascinati dalle sue origini africane, proprio come Noah. Il suo problema? Era un po' indolente. Non impazziva dalla voglia di allenarsi, e per farlo aveva bisogno di motivazioni. Forti motivazioni. “Spesso non nascono da me, ma dal desiderio da contraddire gli altri. Voglio dimostrare che si sono sbagliati, spesso anche in malafede. Ma in fondo siamo tutti così, giusto?” raccontava anni fa il tennista capace di raggiungere una finale Slam, cinque semifinali e nove quarti.

L'iconica esultanza di Jo Wilfried Tsonga, marchio di fabbrica per tutta la carriera

La più bella partita mai giocata da Jo Wilfried Tsonga: la semifinale dell'Australian Open 2008

Per farlo arrabbiare, bastava dirgli che non era un buon giocatore da terra battuta. Diventava viola. Ricordava di essere cresciuto sui campi rossi, elencava i successi in età giovanile e ne decantava le bellezze. “Ho più tempo per colpire, per andare a rete, per colpire sopra la spalla. Certo, mi diverto di più sull'erba...”. La terra è la superficie del suo amato Roland Garros, laddove ha artigliato un paio di semifinali. Nel 2013 entrò in campo scarico contro David Ferrer: lo Chatrier era deserto perché il pubblico era andato a rifocillarsi dopo l'eterno Nadal-Djokovic. Mancò la carica di cui si nutriva. Due anni dopo le provò tutte contro Stan Wawrinka, ma lo svizzero in stato di grazia – si può dire – aveva qualcosina in più. Parigi è anche il torneo del suo più grande il rimpianto: il quarto di finale contro Djokovic nel 2012, in cui ebbe quattro matchpoint nel quarto set. Non li giocò neanche male, ma di fronte aveva una leggenda. Tre anni dopo si sarebbe tolto lo sfizio di vincere un epico quarto di finale contro Kei Nishikori, uno dei match-icona della sua carriera. Uno di quelli in cui l'avversario sembra un pugile suonato, un po' come George Foreman a Kinshasa.

Dopo quella partita, prese la sua racchetta e scrisse Roland, Ti Amo sulla terra. Non è riuscito a vincere uno Slam ed è un peccato, perché aveva qualcosa di più rispetto ai francesi che hanno raggiunto una finale dopo Noah: Arnaud Clement, Cedric Pioline (due volte) ed Henri Leconte. E poi è durato di più, trascorrendo ben 260 settimane tra i top-10 e il doppio tra i primi venti. Deve esserci rimasto male, perchè l'autostima non gli è mai mancata. Aveva 19 anni quando si qualificò per il suo primo torneo ATP, a Pechino. “Il sorteggio gli mise contro Carlos Moya, numero 6 ATP e prima testa di serie – racconta il suo coach di allora, Eric Winogradsky - ero deluso, speravo che trovasse qualcun altro. Invece lui è venuto da me e mi ha detto: “E’ andata proprio male a Moya, eh?”. Era numero 209 ATP e ovviamente vinse la partita”. Come Roddick, Berdych, Del Potro, Soderling, Ferrer e gli altri top-player che hanno giocato in questo periodo, potrà prendersela con gli dei del tennis per avergli dato i peggiori avversari possibili. Ma Jo si tiene stretto il suo piccolo record e sa che nessuno potrà portargli via un grido di battaglia che ha esaltato i suoi sostenitori, ogni volta che faceva ruggire la palla e metteva all'angolo i suoi avversari. Tsonga bumayè! Tsonga bumayè!