The Club: Bola Padel Roma
IL CASO

Pearl Harbor!

La crisi del tennis americano è ormai una voragine: non hanno più nemmeno un giocatore tra i primi 30. Un crollo dalle proporzioni inattese, che non può essere spiegato con la sola globalizzazione. La USTA dovrà lavorare duramente, mentre l'Italia gongola. E c'è chi ha iniziato a fare battute.

Riccardo Bisti
10 maggio 2021

Tra le stanze del Foro Italico, Angelo Binaghi può permettersi di fare battute con Romain Schneider, giornalista di Le Figaro chiamato a scrivere un pezzo sul momento d'oro del tennis italiano. “Il nostro segreto? Non ve lo dico, sennò in Francia ci copiate”. La frase ci può stare, anche perché siamo spesso stati dietro alla Francia, e da loro abbiamo ancora parecchie cose da imparare. Ma se l'Italia gongola, al di là dell'Oceano Atlantico c'è chi piange. Per esempio, Patrick Galbraith. L'ex doppista americano e presidente USTA (federazione tennistica più ricca al mondo), si è svegliato lunedì con una brutta sorpresa: per la prima volta da quando esiste il computer, non c'è un solo tennista americano tra i top-30 ATP. Un fatto clamoroso per una nazione-pilastro del nostro sport, e che per decenni ne è stata il cuore pulsante. C'è una foto che più di altre simboleggia il dominio americano. Risale al dicembre 1992 e vede il team di Coppa Davis con l'Insalatiera appena vinta. Avevano appena battuto la Svizzera con Andre Agassi, Pete Sampras, Jim Courier e John McEnroe. Tutti è quattro sono stati numero 1 del mondo. Quel patrimonio si è perso. Prima lentamente, poi il calo è diventato un crollo. Una slavina.

Nel ranking ATP del 10 maggio 2021, il primo americano (Taylor Fritz) è numero 31 ATP. Perlomeno ha passato un turno al Foro Italico. Ce l'ha fatta anche Reilly Opelka, che oggi sfiderà Lorenzo Musetti in un affascinante contrasto di stili. Da parte sua, Fritz se la vedrà con Novak Djokovic nel replay del discusso match dell'Australian Open. Un presente che sa di Death Valley, di Disastro di Pearl Harbor, se paragonato al passato. Nel 1984 (anno d'oro di John McEnroe) c'erano quattro americani tra i primi dieci (oltre a Mac c'erano Connors, Arias e Teltscher). Inoltre, erano in 22 tra i top-50 ATP. Dieci anni dopo avevano mantenuto la loro quota tra i migliori (Sampras, Courier, Chang, Martin), però si era dimezzata la presenza tra i primi cinquanta. In generale, gli Stati Uniti sono il Paese più titolato nella storia del tennis. Da quando siamo entrati nel professionismo, hanno vinto 51 prove del Grande Slam. Di queste, ben 27 tra il 1989 e il 2003 (il periodo della grande rivalità Sampras-Agassi). Dopo di loro è arrivato Andy Roddick. Il Kid del Nebraska ha vinto lo Us Open 2003 e sempre quell'anno è salito al numero 1 del mondo. 13 settimane tra il novembre 2003 e il 1 febbraio 2004, prima del sorpasso di Roger Federer.

PLAY IT BOX
"Sarò felice per 30 secondi, poi penserò subito a Roma. Sono in arrivo grandi tornei"
Alexander Zverev

Wimbledon 2009: ultima finale Slam con in campo un tennista americano

Nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbe rimasto l'ultimo. Roddick è stato l'ultimo americano davvero forte, ed è stato penalizzato dalla contemporaneità con Roger Federer. Ha raggiunto altre quattro finali Slam (tre a Wimbledon e una New York), ma ha sempre sbattuto con la muraglia svizzera. Il problema è che al suo fianco non c'era nessuno (o quasi). Grazie all'aiuto di James Blake e dei mitici gemelli Bryan, ha portato a casa la Coppa Davis nel 2007. Il declino era già evidente, ma nessuno pensava che i buchi sarebbero diventati una voragine. Eppure la USTA gode di risorse economiche impressionanti, così come gli stipendi di alcuni suoi alti dirigenti. I capoccia del tennis americano annunciano regolarmente la fine del tunnel. La USTA non sta con le mani in mano: hanno creato un centro tecnico da favola a Orlando, con 100 campi, e hanno attivato programmi per coinvolgere le minoranze etniche, storicamente escluse (neri, ispanici e asiatici). Eppure non emerge nessuno. Si sono tenuti a galla tra le donne grazie alle sorelle Williams e un gruppo di ottime giocatrici, ma lo sport femminile non ha lo stesso appeal.

Oggi sono in calo anche lì, se è vero che Cori Gauff è oggetto di una campagna di marketing francamente ingiustificata. Tra gli uomini non hanno nemmeno quello. Ci hanno menzionato tanti potenziali campionI: prima Steve Johnson e Bradley Klahn, poi Donald Young e Ryan Harrison. Fenomeno junior il primo, mostro di precocità il secondo. Non sarebbe onesto definirli bluff (sono stati rispettivamente n.38 e 40) ma non si sono neanche avvicinati alle promesse-speranze di inizio carriera. Poi sono arrivati Taylor Fritz, Tommy Paul e Frances Tiafoe. Tutti annunciati come possibili top-10, oggi sono rispettivamente numero 31, 55 e 74 ATP. Numeri che si possono giusto giocare al lotto. Ad oggi, l'unica speranza davvero concreta è Sebastian Korda. Figlio di Petr, mitico giocatore degli anni 90, è di sangue ceco (una garanzia), ma tennisticamente è americano al 100%. Nato a Bradenton, si è forgiato in una Florida che è ancora terra promessa per molte speranze, ma soprattutto straniere. Il giovane Sebastian ha enormi aspettative, e forse è una buona notizia che abbia due genitori che ci sono già passati.

Sebastian Korda, figlio di Petr e Regina Rajchrtova, è la più fulgida speranza del tennis americano

L'ultimo match di Pete Sampras è anche stata l'ultima finale Slam tutta americana

Non dovesse sfondare neanche lui, negli uffici newyorkesi avranno di che disperarsi. Sarebbe inevitabile parlare di fallimento, visti gli enormi introiti provenienti dallo Us Open. Per carità, è ingiusto dare la colpa di questa esclusivamente al sistema USTA, poiché ci sono due elementi cruciali che hanno depotenziato il tennis americano, soprattutto in campo maschile. Il primo riguarda lo scarso appeal del tennis tra i giovani americani. Altri sport (basket, football, baseball e hockey) garantiscono maggiori probabilità di guadagno e soddisfano l'esigenza dello yankee medio: il cameratismo, sublimato dagli sport a squadre. Il secondo è la globalizzazione del tennis. Negli anni 80 la concorrenza era modesta, poi la disgregazione dell'Unione Sovietica ha dato il là a un processo che nel 21esimo secolo si è sublimato: oggi possono spuntare campioni da ogni angolo del mondo. E non è raro che tante giovani promesse scelgano di formarsi proprio negli Stati Uniti. In altre parole, gli americani sono indirettamente artefici del loro fallimento.

Intendiamoci: non si può spiegare tutto così. Qualcosa non ha funzionato negli ingranaggi a stelle e strisce, e continua a non funzionare. Chissà se sapranno trovare il bug, lavorarci e sistemarlo. Qualcuno ha scritto che pregano di non fare la fine degli svedesi: dopo l'epopea del post-Borg, in cui erano arrivati ad avere quattro dei primi sei del mondo, oggi la Svezia si aggrappa a due fratelli di origine etiope, nemmeno così forti: Mikael ed Elias Ymer. Il secondo non è mai entrato tra i top-100, il primo è attualmente il miglior giocatore svedese ed è al numero 102 dopo essere stato 67. Guardarsi alle spalle è giusto, ma gli Stati Uniti non possono pensare a uno scenario simile. Dovranno avere l'umiltà di abbassare la testa e lavorare duro, accettando di presentarsi a Torino, il prossimo novembre, come vittime sacrificali della corazzata italiana nel girone delle Davis Cup Finals. E prepararsi a qualche battuta dei dirigenti italiani.