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IL PERSONAGGIO

“C'erano sorteggi truccati per sfavorire i tennisti neri”

MaliVai Washington è stato l'ultimo afroamericano a giocare una finale Slam. Era il 1996. A suo dire, oggi è difficile emergere per tutti, non solo per i neri. “Da ragazzino ho sperimentato il razzismo vero: club in cui non potevamo entrare e sorteggi pilotati”. Con la sua fondazione ha messo una racchetta in mano a oltre 20.000 ragazzi. E li ha strappati alla criminalità.

Riccardo Bisti
11 luglio 2020

MaliVai Washington lo dice senza mezzi termini. “Sono triste”. Per lui è troppo doloroso pensare di essere – ancora oggi – l'ultimo afroamericano ad aver giocato una finale Slam. In mezzo ci sono state le sorelle Williams, per carità, ma per trovare un uomo bisogna scorrere fino all'anno delle Olimpiadi di Atlanta, quelle fortemente volute dalla Coca Cola. Wimbledon 1996, la corsa di MaliVai si fermò soltanto contro Richard Krajicek. Quell'anno, l'olandese fu ingiocabile. Tra il 1993 e il 2000, fu l'unico a battere Pete Sampras sull'erba di Church Road. Erano i quarti. In finale, gli bastarono 94 minuti per sconfiggere 6-3 6-4 6-3 il volenteroso Washington. L'emozione più grande di quella partita fu l'irruzione di una bella ragazza bionda, praticamente nuda, durante le foto di rito. Ma oggi è tempo di tristezza, di malinconia. “È triste e angosciante” dice Washington, quando gli ricordano che l'ultimo afroamericano a vincere Wimbledon è stato Arthur Ashe, nel 1975. “Sono sorpreso dalle attuali difficoltà del tennis americano, però vedo che ci sono più neri competitivi”.

Forse adesso non è più una questione di razza, o di difficoltà di accesso allo sport per una comunità storicamente più povera. Semplicemente, abbiamo vissuto (e stiamo vivendo) un cannibalismo senza precedenti. Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic hanno lasciato le briciole. La metafora scelta da Washington rende l'idea: “Riuscire a batterli è un po' come catturare un fulmine dentro una bottiglia. L'ultimo americano a vincere uno Slam è stato Roddick nel 2003: questo fa capire quanto sia difficile, non solo per un nero, ma in generale, raggiungere la finale di uno Slam”. Però c'è anche una questione sociale, di numeri, legata al calcolo delle probabilità. Prendiamo un bambino nero di 5, 7, 10 anni. Accende la TV e può assistere a decine partite di basket o football americano, sia NCAA che professionistico. Vede decine di ragazzi che gli assomigliano. “È ovvio che lo spirito di emulazione li porti a voler praticare quegli sport. E questo non accade con il tennis”.

La finale di Wimbledon 1996, persa da Washington contro un irresistibile Richard Krajicek

"Federer, Nadal e Djokovic? Riuscire a batterli è un po' come catturare un fulmine dentro una bottiglia" 
MaliVai Washington

Oggi Washington ha 51 anni. A parte qualche chilo di troppo, è invecchiato piuttosto bene. Ammette di essere stato fortunato: fu suo padre ad avvicinarlo al tennis quando aveva 5 anni. Non solo: gli ha trasmesso una tale etica del lavoro da spingerlo ad andare avanti. Un giorno, poi, è arrivata l'ispirazione definitiva. Era la prima domenica di giugno del 1983 e Yannick Noah vinceva il Roland Garros. Da allora sono passati 37 anni e nessun altro nero ha vinto uno Slam. Quel successo ispirò Washington a provarci ancora più seriamente. “Ho amato davvero Yannick Noah – racconta – quando ero uno junior mi hanno chiesto di palleggiare con lui allo Us Open. Ho pensato che fosse la cosa più bella del mondo. Ma ero talmente nervoso che mi sono presentato sul campo sbagliato. Dovevamo allenarci alle 18, e pochi minuti prima vidi arrivare un mare di gente. Aveva le trecce e, col suo accento francese, mi disse che ero un giovane promettente. Mi ha augurato buona fortuna. Per me fu un momento davvero speciale”.

Prima di allora, Washington aveva dovuto sopportare la brutalità del razzismo. L'ha vissuto nelle cose più banali, e dunque più dolorose. È cresciuto in un circolo frequentato prevalentemente da bianchi. “Ci sono stati tornei in cui mi veniva detto che non potevo partecipare. Motivo? Il colore della mia pelle. C'erano dei circoli in cui i tennisti neri non potevano mettere piede”. A parte questa disgustosa apartheid in salsa yankee, la cosa più dura erano i sorteggi pilotati. Sentite Washington: “Tabellone a 32 giocatori, di cui 3 neri. Capitava spesso che due di loro si affrontassero al primo turno, e poi al secondo il vincente avrebbe affrontato l'altro nero. Mi domandavo se fosse soltanto casualità. Ma poi succede, e succede ancora... e ti viene da pensare che sia tutto calcolato”. La sua grande qualità è stata il non abbattersi. Alla fine ha avuto ragione lui, intascando oltre 3 milioni di dollari (di soli premi ufficiali), venendo scelto da Reebok per uno spot insieme a Pat Rafter (che scimmiottava quello Nike di Agassi e Sampras) e ricevendo un trattamento più equo, più giusto.

"Tabellone a 32 giocatori, di cui 3 neri. Capitava spesso che due di loro si affrontassero al primo turno, e poi al secondo il vincente avrebbe affrontato l'altro nero. Mi domandavo se fosse soltanto casualità. Ma poi succede, e succede ancora... e ti viene da pensare che sia tutto calcolato" MaliVai Washington

  • 20.000
    È il numero di giovani che hanno usufruito del sostegno della MaliVai Washington Youth Foundation. Inaugurata nel 1994, è molto attiva ancora oggi. Nel 2010 ha ottenuto l'Arthur Ashe Humanitarian Award per la bontà del proprio lavoro

“Però di tanto in tanto il razzismo tornava sempre a galla – racconta MaliVai – ci sono state situazioni particolari, magari con persone che lavoravano per il torneo con ruoli secondari. Battutine, frasi buttate qua e là. Potevano sembrare divertenti, ma in realtà erano soltanto fuori luogo”. CNN si è rivolta all'ATP per avere una qualche replica, senza ottenere risposta. “Personalmente non mi va di impegnarmi troppo a correggere chi fa o dice qualcosa per motivi razziali. Non mi sembra un buon uso del mio tempo”. In fondo, il tempo è la cosa più preziosa che abbiamo. E allora ha scelto di investirlo in altro modo: nel 1994 ha lanciato la MaliVai Washington Youth Foundation, il cui obiettivo è aiutare i bambini disagiati e avvicinarli al gioco del tennis. Manco a dirlo, la maggior parte di loro sono neri. Ha scelto di concentrarsi su Jacksonville, Florida, in particolare nella zona col codice d'avviamento postale 32209. “Se andate da quelle parti, laddove si consumano crimini e omicidi legati alla droga, l'ultima cosa che vi aspettereste è trovare bambini che giocano a tennis. Invece li troverete, e sono molto competitivi”.

La fondazione di Washington ha creato un programma che prevede tennis, tutoraggio e sviluppo di qualità di vita per i ragazzi poveri. Risultato? Buoni punteggio scolastici, nessuna gravidanza adolescenziale e tassi di criminalità ai minimi termini. “Spesso i bambini arrivano da situazioni economiche molto difficili – continua Washington – ma non può essere una scusa per la mancanza di risultati. La mia fondazione è il loro scudo, il loro vantaggio”. Non c'è dubbio che Arthur Ashe sarebbe fiero di questa iniziativa. Washington ricorda di averlo conosciuto molto tempo fa, presso il West Side Club di Forest Hills. “Gli dissi che pensavo di diventare professionista dopo il mio secondo anno all'Università. Mi disse che non era sicuro che dovessi farlo. Credo che fosse una riflessione generale su quanto fosse importante, per lui, l'educazione”. Poco importa: MaliVai è diventato numero 11 del mondo, finalista a Wimbledon e nel 2010 gli hanno conferito il premio ATP dedicato alle migliori attività umanitarie. Manco a dirlo, il riconoscimento è intitolato ad Arthur Ashe. “Il suo insegnamento maggiore? Mi ha fatto capire che gli atleti di livello internazionale hanno una responsabilità maggiore rispetto a colpire la palla. E allora mi piace ricordare una citazione del suo libro: Se sarò ricordato solo come tennista, allora avrò fallito. Vorrebbe dire che non ho fatto il mio lavoro. Ecco, quella frase è sempre con me”. Non ci sono dubbi che abbia saputo farne tesoro.