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L'OPINIONE

Canottiere, Suzanne Lenglen e gesti bianchi

L'improponibile canottiera utilizzata da Joris De Loore al Challenger di Oeiras dovrebbe imporre una riflessione su come si è evoluto l'abbigliamento tennistico. Non si può pretendere il bianco a tutti i costi, ma un minimo di decenza sarebbe necessaria. Eppure il Rulebook ATP...

Corrado Erba
21 aprile 2024

La cosa interessante, per noi guardoni di tennis, è la programmazione attuale di SuperTennis: per cause di forza maggiore (mancato acquisto dei tornei ATP / WTA), trasmette a piè spinto tornei Challenger, popolati da svariati giocatori che mai, nell’etere popolare, potremmo vedere.
Veterani immarcescibili, speranze futuribili, profeti mancati del serve and volley.
Giocava ieri, sul bel centrale di Oeiras (un borgo solatio di circa 170 mila anime nei dintorni di Lisbona, mi informava Google Maps), tale Loris De Loore, un belga che al tennis ha più dato che preso probabilmente, visto che a trent’anni galleggia a stento nei primi duecento. Sono sobbalzato, vedendo che il ragazzone vestiva una canotta nera. Attenzione, non una t-shirt senza maniche, stile Rafa Nadal d’antan o negli ultimi tempi il suo omologo Carlitos, ma proprio una canottiera, tipo quella del magutt che, sotto casa mia, era impegnatissimo a finire un muro di cinta, del palazzo confinante. Adesso: d’accordo che i tempi dei gesti bianchi sono finiti da un pezzo e spavaldamente (resiste solo l’albionico baluardo di Church Road, all’assalto dei corsari multicolorati), tuttavia mi veniva da pensare, vedendo il ragazzone sbracciatissimo, che l’ATP potrebbe e dovrebbe inserire alcune regole di minima, invece fa finta di niente.

La cosa interessante è che nel suo dettagliatissimo Rulebook (395 pagine!), il capitolo 8 ( “the code”) dedica ben cinque pagine ai dettami sull’outfit, ma solo due righe per specificare quale tipo di outfit è ammesso, ovvero: “Il giocatore si deve presentare vestito in maniera accettabile e professionale. Può essere indossato ogni indumento pulito e consueto, approvato dall’ATP”. Tutto il resto è dedicato alle misure e al posizionamento dei loghi e altre questioni puramente commerciali, il tutto dettagliato in maniera così specifica, che un capitoletto è perfino dedicato a eventuali tatuaggi commerciali che il tennista potrebbe esporre (in effetti il rischio c'è, come vi abbiamo raccontato a suo tempo). Ora, ditemi voi in che maniera ponziopilatesca si scrive: approvato dall’ATP senza spiegare compiutamente come e quando arriverebbe questa approvazione (almeno, frugando non l’abbiamo trovata). Il regolamento degli Slam, salomonicamente, copia e incolla le rules dell’ATP , dettagliando comunque che “L’indumento deve essere approvato da ogni singolo torneo dello Slam” con l’unica specificazione dell'all-white per Wimbledon anche se poi , in realtà, specifica che sono vietate : “felpe, calzoncini da ginnastica, camicie (sic) e t shirt”. La bizzarria di queste regole è cosi accentuata che sono permesse le magliette senza colletto (T-shirt), ma solo in tessuto tecnico, mentre in teoria non si possono vestire delle t shirt di cotone (!), mentre sono permesse le polo in cotone (altrimenti addio alla nostra cara Lacoste). Il regolamento di Tennis Australia poi specifica che le magliette senza manica sono permesse “Se sono riconosciute come magliette da tennis” (Sic)

Joris De Loore indossava una canottiera, tipo quella del magutt che, sotto casa mia, era impegnatissimo a finire un muro di cinta, del palazzo confinante.

Purtroppo i buoi sono scappati alla metà degli anni ottanta, quando, sulla spinta degli sponsor , venne abolito l’obbligo della collar neck, ovvero di vestire con una maglietta con il colletto. “Image is everything” risuonavano i claim pubblicitari della Nike, rimandando le immagini di un coloratissimo Andre Agassi, aprendo il mercato, non tanto ai colori, che già erano sbarcati negli anni settanta, vedi le coloratissime mise di Rose Marie Casals o i collettoni disco afro di Arthur Ashe, ma alla libertà di vestire con outfit dalle strutture improbabili, che arrivarono allo smanicato abbinato ai pinocchietti di un giovane Rafa, che un acuto giornalista descrisse come: “Mowgli del libro della giungla”.

Ma ancora e comunque nel 2002, a Tommy Haas, venne gentilmente chiesto di uscire dal campo a cambiarsi, durante gli Us open, dato che indossava una maglietta senza maniche non autorizzata, cosi come la stessa richiesta venne fatta pochi anni dopo allo slovacco Dominik Hrbaty, reo di indossare una buffa maglietta con la parte posteriore tagliata all’altezza delle scapole (venne poi fuori in realtà che il problema era il logo sulle spalle). È pur vero che l’evoluzione della moda, dall’inizio della storia è stata costante e non priva di shock culturali. Pensiamo ai primi rivoluzionari outfit che il coutourier Jean Patou creò per la divina Susanne Lenglen , che si presentava in campo come una ballerina dei roaring twenties, con quella che venne definita la Lenglen Bandeau, ovvero una fascia colorata a cingere i capelli nerissimi.

La "Divina" Suzanne Lenglen era solita scendere in campo con abiti elegantissimi

Il bianco simbolizzava la purezza e le virtù di una classe sociale che ivi si identificava e si riteneva destinataria delle regole del gioco. Una patina di esclusività che è stata naturalmente erosa dall’avanzare della popolarità del tennis nel corso degli anni.

La Divina fu presto seguita dalle culotte di Elsa Schiaparelli per Lili De Alvarez e poi le gonnelline leopardate di Ted Tinling per Gussie Moran e i pizzi di Lea Pericoli. Dal punto di vista maschile, il primo scandalo venne dato nel 1932 quando l’inglese Bunny Austin si presentò sul centrale di Forest Hills e successivamente a Wimbledon, vestendo degli shorts al posto dei pantaloni di flanella. Una mossa che gli inimicò l’estabilishment per anni, tanto che solo nel 1961 venne riammesso come socio effettivo all’All England, mentre, per assurdo, tanti anni dopo (nel 1983) l’americano Trey Waltke, dovette chiedere il permesso al comitato per presentarsi sul centrale in pantaloni lunghi, sebbene tale mossa fu più dettata dal desiderio di notorietà che per un effettiva necessità tecnica (Waltke vinse contro Stan Smith per poi perdere al secondo turno contro Ivan Lendl).

Una mossa simile venne fatta due anni dopo dalla connazionale Anne White, che si presentò con un body attillatissimo. Non contestiamo l’abolizione del bianco, che, ahimé, è stata obbligata, poiché il bianco ha una valenza più sociale che sportiva. Era stato introdotto sin dagli inizi del gioco, in era Vittoriana, dato che, alla fine, il primo spharistike si giocava sui ground del cricket, altro sport all white per eccellenza. Come ricordato nel bel libro di J. Lake, “A Social History of Tennis in Britain and Routledge Handbook of Tennis: History, Culture and Politics”

Il bianco simbolizzava la purezza e le virtù di una classe sociale che ivi si identificava e si riteneva destinataria delle regole del gioco. Una patina di esclusività che è stata naturalmente erosa dall’avanzare della popolarità del tennis nel corso degli anni. È pertanto naturale che uno dei motori principali del movimento, ovvero gli sponsor, vogliano sdoganare una libertà di outfit che dal lawn tennis deriva precipitosamente allo street, tuttavia, modesto parere dell’autore, deve essere necessariamente regolamentata, seguendo almeno le regole minime di decenza. Probabilmente, non mi stancherò di ricordare, che articoli simili sono stati scritti periodicamente nel tempo, all’apparire delle novità più innovative o pirotecniche nel corso degli anni, tuttavia auspicheremmo che nel folle sabba mercantile di questo miliardario movimento, non vada perso lo spirito racchiuso in poche righe di Roger Allard.

Adieu, la raquette sonore
Les cris anglais, les gestes blancs!
Le seul jeu de ce jaune octobre
Est de s’embrasser sur les bancs