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L'INTERVISTA

Antonio Costanzo, One Man Band

La voce di Antonio Costanzo non accompagna più gli appassionati da oltre 15 anni. Nel 2006, lasciò Eurosport-Sportitalia per dedicarsi ad attività imprenditoriali che gli hanno dato successi e soddisfazioni. Con noi ripercorre la sua splendida carriera con i consueti garbo ed eleganza. E ammette: “Preferivo Federer a Nadal”.

Federico Ferrero
13 dicembre 2021

Questa intervista è anomala e poco obiettiva per due ragioni. La prima è che l’intervistato fu colui che convinse l’intervistante a darsi anche al commento del tennis, nonostante le sue resistenze, con una fidejussione verbale a un perplesso Bruno Bogarelli durante il colloquio di lavoro.
La seconda è che le telecronache di Antonio Costanzo, immeritatamente rimaste nel chiuso di una setta di appassionati abbonati alla pay-tv di vent’anni fa, continuano – anche in loro assenza – a far impallidire la quasi totalità della produzione verbale dei nostri tempi. Se esistessero oggi, probabilmente qualcuno avrebbe inventato in suo onore uno di quei gruppi web, come i #Leosiners che seguono i racconti di Storie Maledette su Rai3 di Franca Leosini. Costanzo non commenta più dal 2006, eppure – parere mio, ça va sans dire – pur senza gareggiare, dà ancora una pista a tutti. E risentire la sua voce causa incontrollati moti di nostalgia canaglia.
Doppio passaporto e doppio nome in onore allo chauvinisme, Antonio – Antoine - è stato, se non il, uno dei commentatori singoli più bravi nella storia del nostro sport. Singoli perché il doppio, in cabina, nel 2000 non era cosa per tutti. Nel tennis ha iniziato presto, ha fatto tutto salvo giocare ad alto livello e poi, giunto all’età di Cristo, ha salutato e se n’è andato. Non per la vita francescana ma per una fulgida carriera nel mondo degli affari. Lasciando qualche orfano: come capitò con Bruno Gattai che, dopo la valanga azzurra di Tomba e Compagnoni, si congedò dal pubblico con l’inchino alla Truman Burbank e si rimise la cravatta per tornare a occuparsi di fusioni societarie. Senza mai guardarsi indietro.

L’ultima domanda la metto per prima. Perché hai smesso?
«Iniziavo ad avvertire stanchezza rispetto a tutta la mole di lavoro che ricadeva su di me. Mi ero anche reso conto che mi piaceva l’idea di dirigere ed essere parte di un team che costruisce un’azienda. Ero giornalista da otto anni. Mi chiesi: cosa faccio? Continuo o ci provo col mondo degli affari? Scelsi la seconda».

E perché hai iniziato?
«Mi piaceva lo sport, il tennis soprattutto. Il primo ricordo che ho è di mio padre che partecipa a un doppio e uno dei quattro che gioca una veronica, doveva essere il 1976 (l’anno di Panatta: è calzante, ndA). Iniziai a otto anni al Tennis Corvetto di Milano, col maestro Adriano Luzi. Il mio sogno era fare il professionista, però capii presto che non sarebbe successo».

Non era una malattia di famiglia, il tennis.
«No. Mia mamma è stata direttrice commerciale per Versace per più di vent’anni, poi passò a Saks Fifth Avenue. Mio papà era commercialista e consulente di marketing. Ricordo che aveva curato progetti per la John Player Special nella Formula Uno, per la Fila nel tennis con Borg, altre cose nel calcio. Aveva, sì, avuto a che fare con lo sport. Ma ero io che volevo entrare, in qualsiasi modo, in quel mondo».

Sei del 1973, nei primi anni Novanta le facoltà di giornalismo erano agli albori.
«Difatti, dopo lo scientifico Da Vinci a Milano, mi iscrissi a scienze politiche. Ma la passione era altrove. Se potevo, giocavo tutti i giorni. Poi, a 17 anni, scoprii la fotografia: i miei mi regalarono una macchina e pensai di combinare le due cose. Foto e sport. Siccome ero fisso al torneo ATP di Milano grazie ai pass che ci dava Cino Marchese, trascorrevo la settimana a scattare per conto mio, con un piccolo teleobiettivo, sulle sedute intorno al campo. Un giorno, il mitico Ettore Ferreri mi si avvicinò con fare minaccioso e mi disse: “Ma a te, chi te l’ha dato l’accredito? Marchese? Allora va bene: però stai al tuo posto e non fare casino”».

Sportitalia ha iniziato le sue programmazioni nel febbraio 2004 con alcune immagini senza commento (tennis compreso). Il primo volto a comparire fu poi quello di Antonio Costanzo

PLAY IT BOX
«Durante una pubblicità, la mia spalla tecnica dell’atletica Eddy Ottoz mi chiese: “Ma tu lo fai apposta, oppure ti commuovi veramente?” Mi sembrò una domanda strana. Gli dissi che era tutto autentico, ed era vero» 
Antonio Costanzo

Dopo la carriera giornalistica, Antonio Costanzo ha lavorato per dieci anni nel settore delle scommesse. Qui spiega i tentativi di manipolazioni degli eventi sportivi e come prevenirle

Ettore, per tutti noi “il nonno”, era un’istituzione.
«Eccome. Un giorno del 1994 mi propose di accompagnarlo al torneo di Roma, per dargli una mano. Per me era il massimo, non mi sembrava vero. Mi sentivo un bambino al parco giochi. Là incontrai Gianni Ciaccia, che conoscevo di fama perché era molto noto sulle riviste sportive francesi. I suoi scatti mi piacevano moltissimo, glielo dissi e lui mi chiese se avessi voglia di andare al Roland Garros ad aiutarlo, pure pagato. Ci sarei andato a piedi, ero felice come una pasqua. Dopodiché mi assunse nella sua agenzia a Parigi. I miei mi sostennero e mi trasferii là, con l’accordo verbale che avrei continuato a sostenere gli esami universitari. Accordo regolarmente disatteso: però mi iscrissi alla scuola di giornalismo a Parigi, il CFJ, che mi sembrava più attinente alla mia attività. Coprivo gli Slam, a parte Wimbledon che aveva una politica sugli accrediti molto restrittiva; poi Key Biscayne, Monte Carlo, Roma, Parigi Bercy e altri tornei ATP in Francia. Era entusiasmante vivere il tennis così da vicino».

Però avevi un animo inquieto: dopo un po’, la routine ti veniva a noia.
«Non è tanto quello, è che sono sempre stato spinto dalla pulsione di provare nuove esperienze. Nel 1996 tornai in Italia dopo una discussione con Ciaccia: avevo avuto la possibilità di lavorare a Londra con Getty Images ma sì, in verità non mi interessava più fare il fotografo professionista. A quel punto, mi ero messo in testa di fare il giornalista e non solo il fotoreporter. Iniziai a collaborare con Il Tennis Italiano. Fu Giorgio Pomelli a farmi entrare».

E come ci sei arrivato alla tivù?
«Successe che nel 1998 Dario Puppo mi disse che aveva parlato con il nostro collega Ettore Miraglia, reduce da un provino per Eurosport che stava aprendo la sua filiale in Italia. Ci diede il contatto del produttore italiano, Gianni Paolella. Ci presentammo, Dario e io, motivatissimi. Avevo passato migliaia di ore davanti alla tivù a guardare sport, speravo di farle fruttare. Quando riferii a mia madre che mi avevano preso, lei rispose laconicamente: “Oh, finalmente! Tutte quelle giornate in cui ci hai costretto a seguire sport tornano indietro”».

Tu non lo ricordi ma il provino al sottoscritto lo facesti buttandolo allo sbaraglio in un match già iniziato, Ferrero-Nalbandian a Vienna, facendogli rasentare la sincope. Come era andata col tuo?
«Fu una cosa piuttosto ridicola. Mi fecero provare una telecronaca di aerobica femminile, annunciandomelo un paio di giorni prima. Non avevo idea di dove iniziare: non c’era Internet, o quasi, per cui andai alla Libreria dello sport di Milano per farmi una vaga idea di cosa mi aspettasse. In studio, poi, mi fu annunciato che non sarebbe stata una registrazione ma una diretta, “tanto o sei capace o no”. Feci un’ora senza andare nel panico. Parlai molto poco e soprattutto cercai di non dire cazzate, di non sbilanciarmi mai, di commentare quello che si vedeva. Insomma, tutto il contrario di quello che dovrebbe fare un bravo telecronista. A Eurosport, però, c’era già Angelo Mangiante che commentava quasi tutto il tennis. Quindi iniziai con l’atletica e il salto con gli sci. Tappavo buchi, su ogni disciplina».

Un giovane Antonio Costanzo ai tempi di Sportitalia. Con lui, Monica Mattiolo: anni dopo, sarebbero diventati marito e moglie

Tutti abbiamo avuto dei modelli. I tuoi?
«Clerici e Tommasi per il tennis, Gattai per lo sci, e poi per l’atletica Tim Hutchgins. Galeazzi lo apprezzavo moltissimo nel canottaggio, sembrava stesse in barca con gli Abbagnale e con Rossi. Il tennis gli piaceva ma non era il suo sport, non aveva lo stesso trasporto e la stessa passione e, secondo me, si sentiva. A fare le interviste a bordocampo nel calcio, però, era bravissimo».

Agassi-Federer, finale Us Open 2005 (commento Costanzo-Gaudenzi)

La gente non lo sa, ma in quegli anni erano in pochi a potersi permettere le dirette in coppia. Tu eri costretto a farti dieci ore e più da solo in cabina, senza soste. Lorenzo Cazzaniga mi raccontò che ogni tanto, a Parigi, passava a darti il cambio per permetterti di andare in bagno. Eppure le tue cronache erano perfette, non mollavi un colpo: competente, brillante, appassionante, colto, poliglotta. Basta così, sennò è una agiografia.
«Ando così: quando Angelo passò a Sky, mi diedero anche il tennis e ce n’era tantissimo. Le prime cronache sul posto furono al Roland Garros del 2000, l’anno di Kuerten-Norman. Il tennis effettivamente lo commentavo da solo, anche se facemmo qualche prova di spalla tecnica con Silvia Farina, Nathalie Baudone, Renzo Furlan e Gianluca Pozzi. Nel 2003 poi, quando smise di giocare, prendemmo Andrea Gaudenzi in pianta stabile ma, prima di quell’anno, a Eurosport era difficile avere spalle tecniche per questioni di budget. Costava troppo e dovevo fare tutto per conto mio».

Eri noto per vivere in redazione. Soprattutto quando Eurosport coabitò con Sportitalia.
«Quella fu una bella avventura. Eurosport, in Italia, era gestita dalla società Interactive di Bruno Bogarelli. Inizialmente si occupava solo della versione italiana del canale televisivo ma, dal 2001, la rete portò in Italia da Parigi anche Eurosport.it e poi lanciò il canale Eurosport News. Su impulso di Bogarelli iniziai anche a fare attività manageriale. Finché, nel 2003, TF1, proprietaria di Eurosport, si alleò con Tarak Ben Ammar, che si era preso le due frequenze in chiaro che Tele+ era stata costretta a cedere quando si unì a Stream per creare Sky. Con una frequenza fu iniziata l’avventura del digitale terrestre, mentre con l’altra Bogarelli spinse per creare una rete sportiva. Sportitalia. Doveva essere un canale non calciocentrico, perché non avevamo il denaro per comprare i grandi diritti, ma c’erano tanti sport considerati di seconda fascia che non erano trattati dalla tivù in chiaro. Secondo noi, c’era un mercato pronto a ricevere quel prodotto».

Posso dire che era avanguardia? Facevate sembrare i TG sportivi delle altre reti roba del Protozoico.
«Ricordo che passammo ore a guardare le cassette di Sportscenter di Espn: loro prendevano gli highlights e ci costruivano intorno una trasmissione di un’ora. Non volevamo fare il bar del calcio tipico delle televisioni locali italiane, con tutto il rispetto, ma qualcosa di più sofisticato. Un intrattenimento sportivo di qualità. Era una scommessa, e funzionò. Ricordo ancora il giorno: il 6 febbraio 2004 si iniziò ad andare in onda».

Non c’era ancora YouTube, ma rammento bene: open space innovativo, Andrea Gaudenzi ospite in studio, la regia con i vetri trasparenti sullo sfondo e una ignara donna delle pulizie che passava il mocio mentre tu presentavi i palinsesti. A proposito: tra fotografare, scrivere, parlare e apparire in video cosa ti piaceva di più?
«Stare in video mi piaceva. Meno delle telecronache. Anche quella è stata una sfida, mi intrigava. Ma non avevo il piacere che mi dava il commento».

Un match su tutti?
«Uno è sicuramente la finale di Parigi 2006, l’ultima che ho commentato al Roland Garros. Se Federer avesse vinto, tra l’altro, avrebbe sicuramente fatto il Grand Slam. Dentro di me tifavo spudoratamente per lui ma credo di essere stato sufficientemente fair con Rafa, che giocò una partita fenomenale».

Stop. Sai che, oggi, un telecronista che dicesse una cosa simile rischierebbe il linciaggio? Di trovarsi gente sotto casa o di essere licenziato?
«Lo so e non mi piace. Per fortuna commentavo in era pre-social e, soprattutto, cercavo di essere obiettivo. Se però mi avessero chiesto se personalmente preferissi l’uno o l’altro, non avrei avuto dubbi a rispondere Federer. Ognuno ha dei gusti, anche chi fa telecronache».

Vallo a spiegare. Hai visto nascere la rivalità Federer-Nadal: ti eri fatto l’idea che avrebbero triturato ogni record, dai 14 Slam di Sampras in giù?
«No, era impensabile. Perché a parte Connors, mio grande idolo d’infanzia, che a 39 anni fece la semifinale agli Us Open ed era considerato un caso, a quei tempi a trent’anni eri praticamente in pensione».

Un’altra partita memorabile?
«Agassi contro Blake agli Us Open 2005».

E come no. Nel tie-break del quinto ti si sentiva dal piano di sopra – le cabine di Eurosport in via Tazzoli erano sottoterra - gridare “Agassi, Agassi! Non ce la faccio più!”.
«Ero sfinito, era notte fonda. Per fortuna, tiravano così forte che finì 7-6 al quinto ma senza durare un’eternità. Ma non mi emozionavo solo per il tennis: mi capitò quando Mori prese una medaglia nei 400 ostacoli ai mondiali di Siviglia, o quando Michael Johnson fece il record del mondo. Durante una pubblicità, la mia spalla tecnica dell’atletica Eddy Ottoz mi chiese: “Ma tu lo fai apposta, oppure ti commuovi veramente?” Mi sembrò una domanda strana. Gli dissi che era tutto autentico, ed era vero. Pochi secondi prima dell’inizio della cerimonia di apertura del 2000 a Sydney, ricordo ancora adesso, sentivo il conteggio in cuffia e quasi non riuscivo a respirare».

Il mitico open space della redazione di Sportitalia. Ai tempi, avanguardia pura

Non ti spiace non aver potuto commentare italiani vincenti nel tennis?
«Non direi. Non sono mai stato un tifoso degli sportivi italiani. Mi spiego: ovviamente preferivo vincessero loro rispetto ad altri ma mi sono appassionato più ai personaggi che alla loro nazionalità. Nell’atletica come nel tennis. Purtroppo, nel mio periodo non c’erano fuoriclasse nostri. Non è successo ma non mi lamento: ho avuto la fortuna di commentare match come Sampras Agassi agli Us Open 2001, una partita difficile anche da spiegare a chi non l’ha vista, nessuna palla break, quattro tie-break…».

Quindi tra Sampras e Agassi, prendevi Sampras.
«No, Agassi. Sampras non mi era simpatico».

E Djokovic? Tranquillo, non ti cito su Twitter.
«Guarda, a me Djokovic non piace. Come ha detto Panatta, è il più grande pallettaro della storia del tennis. Ed è, per me, come il ragazzo un po’ sfigato che a scuola vuole a tutti i costi fare parte del gruppo, ma esagera e diventa antipatico. A mio avviso ha sofferto del complesso di non essere amato come gli altri due. Quasi certamente vincerà più di loro, ha battuto pure il record di settimane al primo posto, ma non sarà mai il più grande nel cuore del pubblico. Il più grande, poi, secondo me non esiste: come si fa a paragonare epoche diverse? Rod Laver per sei anni non giocò Slam. Nessuno sa quanti altri grandi tornei avrebbe vinto. Quello che mi sento di dire è che sono tre fenomeni assoluti. Nadal ha portato l’aspetto fisico e mentale oltre i confini. Djokovic ha una elasticità mai vista, forse Monfils che però ha altre defaillances. E una grandissima forza mentale. Federer ha combinato epoche diverse, perché ha la facilità e varietà tecnica di Laver e gioca di controbalzo come Agassi: non si era mai visto e forse mai si vedrà una cosa simile».

Parli come uno che non è mai stato sottoposto alla gogna social, il tribunale etico del web in sessione permanente.
«Infatti non mi sarebbe piaciuto. Comunque, via mail arrivavano anche critiche: qualcuno diceva che parlavo troppo in fretta, altri che parlavo troppo. I social li uso pochissimo: ho Instagram perché amo l’arte e mi piace seguirla così, ma non per commentare. E uso LinkedIn per lavoro. Non ho mai avuto interesse per la comunicazione social. Se oggi facessi il telecronista, continuerei a usarli solo come fonte di informazione, perché possono essere utili».

Eppure l’interazione l’avete inventata voi a Eurosport, con le e-mail in diretta.
«Le mail le avevamo pensate perché davano la possibilità di farci domande, che arricchivano il commento con spunti. Aveva un senso. Ma finimmo per farci prendere troppo la mano: ricordo telecronache in cui passavo la maggior parte del tempo a rispondere. Il fulcro, invece, deve sempre essere l’evento. Difatti, col tempo, si era tornati indietro su quella scelta».

Se volevi novità perché non sei mai passato, che so, a Sky?
«Perché non mi fu mai fatta una proposta. Né la cercai io, perché stavo bene dove ero. Eurosport era una realtà con un grande marchio internazionale, che a me piaceva tantissimo fin da ragazzo perché dava spazio a tanti sport ed era l’unico modo per vederli in Italia, a quei tempi. Certo: lavorandoci, feci i conti col fatto che avevamo mezzi ridotti. Era una produzione più casalinga. Ma a me non importava granché: commentavo tre Slam su quattro, le Olimpiadi estive e invernali, i mondiali di atletica... Per me era il massimo. Ci sono giornalisti che lavorano da tempo in aziende editoriali più grandi e strutturate e che non hanno mai avuto queste possibilità».

Ricordo la tua mail di addio. Dopo otto anni, due righe: è stato bello, ciao. Nessuno ci credeva, pareva uno scherzo.
«A luglio del 2006 diedi le dimissioni da Eurosport e Sportitalia. L’accordo fu che avrei fatto ancora alcuni eventi, gli Us Open 2006 e i Mondiali di atletica 2007 a Osaka. Poi smisi completamente. Andai a lavorare per bwin. Mi occupavo di rapporti istituzionali e sviluppo dei mercati in Francia, Spagna, Grecia, Russia, Italia dove già avevamo già una licenza, Svizzera. Prendevo 180 voli l’anno. Rimasi dieci anni».

Ecco, le scommesse. Comprendo le ragioni di bilancio ma il betting, fosse per me, finirebbe oggi. Crea mostri, oltreché corruzione.
«L’obiezione è ragionevole: in alcuni incentiva una maniera distorta di seguire il tennis e lo sport. Ma le scommesse non sono state create negli anni Duemila, ci sono dai tempi dei tempi. In Italia c’era solo il Totocalcio e poi il nero. Abbiamo contribuito a far emergere l’illegalità, e le società di betting hanno dato molto allo sport in termini di finanziamento. Se poi ci sono persone che vivono lo sport in maniera alterata perché hanno scommesso, credo faccia parte del… gioco».

Dopodiché sei passato a Uber, poi il salto. Non degli ostacoli, ma nell’imprenditoria. In un campo un po’ diverso da quello di Wimbledon, altre sementi.
«Mi venne proposto di entrare nel settore della cannabis terapeutica: i due fondatori di bwin stavano investendo in un’azienda canadese e mi chiesero di aiutarli. Mi fecero anche investire, si chiamava Nuuvera. Che venne venduta a un competitor dopo un anno e decidemmo di rilanciare e fondare un’altra società, Emmac, nel 2018, di cui sono stato amministratore delegato, la mia prima avventura da imprenditore. È stata la prima multinazionale europea nella cannabis terapeutica. Acquisita nel 2021 da CuraLeaf, la più grande al mondo nel settore. Sono ancora il Ceo della parte internazionale».

Intanto hai continuato a guardare lo sport o hai avuto il classico rifiuto?
«Nessun rifiuto. Lo guardo ma meno di prima, ovviamente. Prima passavo due ore al giorno a informarmi. Leggevo l’Èquipe, che era di un altro livello sul tennis e non solo rispetto alla Gazzetta e ai quotidiani inglesi. La passione è rimasta».

Vuoi dirmi che firmare un accordo milionario dà l’adrenalina della risposta di Agassi a Blake sul 7-6 del tie-break al quinto?
«Quando abbiamo chiuso l’accordo per la vendita, un processo durato mesi, ho provato una grande sensazione di leggerezza che mi rituffò nel mondo dello sport: fu più grande il sollievo che tutto fosse andato bene rispetto alla gioia del successo. È una cosa che gli sportivi dicono spesso, no? Quando ci sono grandi aspettative è più grande la soddisfazione per non aver perso che la felicità di aver vinto».

Immagine vintage della storica redazione di Sportitalia. Tra loro si riconosce Massimo Callegari, oggi affermato conduttore-presentatore di Mediaset

E quando Gaudenzi è diventato chairman dell’Atp ci hai pensato, a tornare al tuo grande amore?
«Sì, ma è stato un pensiero rimasto in sospeso. Avevo appena iniziato con Emmac e non era pensabile staccarsi da quel ruolo. Ma non escludo di ricapitare nel mondo dello sport: non ho mai lasciato un lavoro pensando di non farlo mai più, perché non ho mai scelto lavori brutti».

Intanto, però, quel mondo è cambiato. Il digitale ha stravolto tempi, modi e abitudini.
«Quello che è evidente è che la tecnologia sta cambiando il modo di fruizione. Lo streaming è il mezzo con cui guardiamo sport e intrattenimento. Sono completamente d’accordo con il tentativo di riforma di Gaudenzi e credo stia facendo un lavoro fantastico. Non lo dico perché è un amico: sta affrontando una sfida monumentale. Il tennis è estremamente frammentato, nessun altro sport a parte la boxe è configurato in questo modo caotico. Lui sta cercando di costruire un’offerta diritti tivù unitaria che copra tutti i tornei più importanti, e di ridefinire il rapporto fra tornei e giocatori, la relazione fra ATP, WTA e ITF.
Solo così puoi massimizzare l’offerta dal punto di vista economico, non si possono più vendere singolarmente i diritti se si vuole aumentare l’incasso. Serve un pacchetto onnicomprensivo, che poi può essere venduto direttamente da una piattaforma come TennisTv.com oppure distribuito attraverso le televisioni, ma a prezzo superiore».

Saremo tutti inglobati da Amazon, via.
«Cosa succederà agli editori tradizionali non lo so. Ma stanno già cambiando, Sky stessa non è più quella che era quando facevo il telecronista, adesso è molto più aperta al digitale».

E tu cosa diresti, a un giovane telecronista del tennis digitale?
«Di studiare tanto. Che non vuol dire studiare statistiche e mandare notizie a memoria ma capire il passato. Non nozionismo ma cultura, che è scegliere e mettere insieme i pezzi. È fondamentale: i dati, ormai, sono a disposizione di tutti, le notizie anche. Il valore aggiunto è saper fare una sintesi di tutte le informazioni e valorizzarle con il racconto. Capisco evolvere, io non somigliavo a Rino e Gianni che non somigliavano a Guido Oddo: ma se togli allo sport il racconto, cosa rimane? Poi, non usare i luoghi comuni né parlare quando non serve. Il tennis ha anche bisogno delle sue pause».

Ma non lunghe come la tua, mannaggia a te.