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LA STORIA

Ammazzano i genitori e poi vanno allo Us Open

C'è il tennis sullo sfondo di uno degli omicidi più efferati nella storia americana. Il 20 agosto 1989, le giovani promesse Lyle ed Erik Menendez trucidarono i genitori. Il processo tenne col fiato sospeso un'intera nazione e si concluse con l'ergastolo. Ancora oggi non è stato accertato il movente.

Riccardo Bisti
25 febbraio 2021

Chiamato a dare un parere su Lyle ed Erik Menendez, il loro ex coach Charles Wadlington disse che erano bravi ragazzi, molto educati. Al contrario, papà Josè non era una bella persona. Tipico padre invadente, profilo ben conosciuto a chi segue il tennis: rompiscatole, impiccione, ambizioso, per nulla empatico. Ma come mai Wadlington dovette esprimersi così davanti a un giudice, peraltro sotto giuramento? I fratelli Menendez erano imputati in uno dei più famosi processi per omicidio mai vissuti negli Stati Uniti. Un fenomeno mediatico senza precedenti, poi ripetuto per OJ Simpson. La storia di Lyle ed Erik è entrata nella cultura pop americana, al punto da essere citata in un film di Oliver Stone (Natural Born Killers, del 1994) e diventare oggetto di decine di documentari e inchieste. Un caso che ha regalato grande popolarità al giornalista Dominic Dunn, diventato un guru del giornalismo investigativo per i tanti articoli scritti sull'argomento. Nel caso dei Menendez Brothers ha avuto un ruolo importante anche il tennis. 30 anni dopo, permane il dubbio che il nostro sport fosse tra le ragioni (se non la ragione) ad alimentare un odio così feroce. Per questo, vale la pena raccontare la storia. Se fate un salto su Google Maps, scoprirete che la lussuosa abitazione di Beverly Hills con 6 camere da letto, piscina, campo da tennis e residenza per gli ospiti è ancora oggi definita Menendez House. Il tutto nonostante ci abbia abitato anche Elton John. Dall'interno di quella villa, nella notte del 20 agosto 1989, è partita una chiamata al 911. “Correte, qualcuno ha ucciso i nostri genitori”. I poliziotti trovarono una scena raccapricciante: i coniugi José e Kitty Menendez riversi a terra, crivellati dai colpi di una calibro 12. Un delitto efferato, violentissimo. Gli assassini non si limitarono a ucciderli, ma si accanirono sui corpi fino a renderli irriconoscibili. Il capo della polizia, intervenuto sul posto, disse di non aver mai visto una scena simile in trent'anni di servizio.

A chiamare i poliziotti furono i figli della coppia, Lyle ed Erik. Dissero di aver trovato i genitori morti al rientro dal cinema, laddove si erano recati per vedere License to Kill. Visto che non c'erano più posti, avrebbero ripiegato su Batman. Sulle prime, si pensò alla pista mafiosa. José Menendez era un esule cubano, arricchito, che da lavapiatti era diventato amministratore delegato della casa di distribuzione LIVE Entertainment. Lungo la sua arrampicata sociale si era fatto molti nemici. Logico che le indagini partissero da lì. I primi sospetti sui fratelli comparvero la mattina dopo, quando Lyle ed Erik si rivolsero così al detective Les Zoller: “Senta, noi ci trasferiamo dal nostro coach di tennis. Prima dovremmo recuperare abiti e racchette. Si trovano nella stanza dove i nostri genitori sono stati uccisi”. Non esattamente l'atteggiamento di figli disperati. Tempo dopo, si scoprì che avevano cercato di cancellare i contenuti dell'hard disk del computer di famiglia, poiché temevano che esistesse un testamento che li escludesse dall'eredità. E si attivarono a tempo di record per riscuotere i 5 milioni di assicurazione previsti dall'accordo con LIVE Entertainment. I due erano a conoscenza che i soldi sarebbero stati sbloccati soltanto in caso di morte di entrambi i genitori. Da un giorno all'altro, cambiarono vita. Acquistarono orologi Rolex, una casa in New Jersey (dove avevano vissuto prima di trasferirsi a Beverly Hills), auto di lusso, vestiti per 40.000 dollari e investirono addirittura in un ristorante.

PLAY IT BOX
Il primo viaggio post-delitto fu a New York, laddove acquistarono costosissimi palchi per lo Us Open. Andarono per seguire Michael Joyce nella prova junior.
La telefonata di Lyle Menendez alla polizia. "Qualcuno ha sparato ai miei genitori"

Entrambi erano ottimi tennisti. In particolare, Erik sembrava avere le carte in regola per diventare un professionista. Subito dopo il delitto smise di studiare e assunse un coach a tempo pieno, Mark Heffernan, per lanciarsi nel tour. Gli garantì uno stipendio annuo di 50.000 dollari. Il primo viaggio post-delitto fu a New York, laddove acquistarono costosissimi palchi per lo Us Open. Andarono per seguire Michael Joyce nella prova junior: proprio lui, il tennista raccontato da David Foster Wallace e poi diventato coach di Maria Sharapova. Non molti sanno che era stato compagno di doppio di Erik Menendez.
Ma facciamo un passo indietro. Come tutti i genitori arricchiti, José Menendez era molto esigente con i figli, e badava molto alle apparenze. Quando Lyle fu allontanato dalla prestigiosa Università di Princeton (era accusato di plagio), lo lasciò in New Jersey al solo scopo di evitare che in California scoprissero il disonore. Quando i figli scelsero di giocare a tennis, peraltro mostrando un buon talento, si appassionò al nostro sport in modo patologico. Divorò manuali, trascorse giornate a guardare le partite. E seguiva i figli in modo ossessivo, al punto di recarsi in Europa a bordo di un Concorde per seguire un torneo, oltre a impicciarsi nelle questioni tecniche. Aveva licenziato Wadlington perché aveva osato rivendicare la sua autonomia di maestro. Una volta Lyle giocò all'Orange Bowl, perdendo nettamente da Kent Carlsson. Affascinato dal topspin esasperato dello svedese, volle che il figlio prendesse a giocare come lui. In tutto questo fece amicizia con il padre di Joyce, altro padre-padrone di quel mondo lussuoso ma malato. Il più bravo dei fratelli, tuttavia, era Erik. Arrivò ad essere numero 44 nella classifica nazionale giovanile, ma il padre non stravedeva per lui.

Due settimane prima dell'omicidio disse che non avrebbe assecondato il suo desiderio di diventare professionista, ma lo avrebbe spedito a studiare alla UCLA. Dopo tanti anni, a sentenze più che archiviate, è legittimo domandarsi se il tennis abbia contribuito a creare il movente.
Perché, se non si fosse capito, ad ammazzare José e Kitty Menendez erano stati i figli, Lyle ed Erik.
La polizia lo sospettava ma non aveva prove, anche perché le prime indagini furono superficiali e non raccolsero gli indizi necessari.
La confessione arrivò il 31 ottobre 1989 nello studio dello psicologo Jerome Ozil. Li seguiva da tempo, quando il padre lo aveva assunto a seguito di un furtarello commesso dai figli. Fu Erik ad ammettere che due giorni prima dell'omicidio avevano acquistato due pistole a San Diego, utilizzando il documento rubato di un altro studente. Dopo il fatto, le avrebbero nascoste sulle colline di Santa Monica per poi gettarle nel Mar dei Caraibi. Ascoltata la confessione, Ozil fece chiamare anche Lyle. Quest'ultimo si arrabbiò moltissimo, minacciandolo di morte se avesse rivelato quel che aveva sentito. Ozil registrò la sessione e disse ai fratelli che il nastro era nella cassaforte di un avvocato, pronto a finire nelle mani della polizia se gli fosse successo qualcosa. Per prudenza, mandò moglie e figli in un posto sicuro. Forse sarebbe finita così, chissà. Ma in questa storia entrò un'altra persona, Judalon Smith, amante di Ozil. Sospettando che i due fossero coinvolti nell'omicidio, lo psicologo chiese alla donna di recarsi in studio fingendosi una paziente.
Lo fece e sentì tutto.

L'atteggiamento di Lyle ed Erik durante il processo indignò l'opinione pubblica americana
Uno dei tanti documentari in cui viene ricostruita la vicenda dei fratelli Menendez

Qualche mese dopo, lasciata da Ozil, in preda a sete di vendetta (più che di giustizia), la Smith rivelò tutto alla polizia. L'8 marzo 1990 fu arrestato Lyle, mentre Erik si consegnò tre giorni dopo, di ritorno da un Circuito Satellite in Israele, laddove aveva cercato di raccogliere i primi punti ATP. Fu l'inizio di un processo-show, che ben presto diventò un fenomeno mediatico grazie alla trasmissione in TV. I fratelli si presentarono in aula elegantissimi e sorridenti, come se non fossero toccati dalle accuse. Il loro atteggiamento scatenò l'indignazione collettiva, anche se anni dopo Erik ammise che erano sorrisi di nervosismo, di persona incapace di tenere a bada le emozioni. In fase preliminare si discusse sulla legittimità delle registrazioni. La difesa sosteneva che Ozil avesse violato il segreto professionale, mentre l'accusa riteneva che le minacce lo avrebbero fatto cadere. Alla fine furono parzialmente ammesse, quel tanto che basta per sciogliere ogni dubbio sulla responsabilità dell'omicidio. A quel punto, la difesa – guidata dall'avvocatessa senza scrupoli Leslie Abramson – cambiò strategia. Disse che i fratelli erano stati vittima di abusi fisici e psicologici da parte dei genitori, dunque l'omicidio sarebbe stata l'unica via per sfuggire alla sottomissione. Tesi un po' debole. Per rafforzarla, ecco il colpo di scena: gli abusi sarebbero stati anche di natura sessuale, sin da quando avevano sei anni. A scatenare la furia omicida sarebbe stato un litigio tra Lyle e la madre, durante il quale lei gli avrebbe strappato la parrucca. Erik non sapeva che il fratello avesse problemi di calvizie precoce, così - in fraterno senso di solidarietà - gli confessò gli abusi sessuali. In tutto questo, papà José (dipinto come un pazzo con tendenze pedofile) continuava a sostenere che avrebbe fatto di loro quel che voleva. Secondo la tesi difensiva, l'esasperazione li avrebbe portati a compiere il folle gesto. Il procedimento fu invalidato perché i due furono erroneamente processati separatamente.

Il secondo processo fu meno pubblicizzato perché il giudice Stanley Weisberg non ammise le telecamere, inoltre non furono accettate diverse testimonianze a favore della difesa sul tema degli abusi sessuali. Il 17 aprile 1996 (pochi giorni dopo il best ranking ATP colto da Michael Joyce...) i fratelli sono stati condannati all'ergastolo senza condizionale. Non fu presa in considerazione la tesi difensiva: secondo i giudici, l'unico movente era il desiderio di impadronirsi dell'eredità, tesi rafforzata dal loro comportamento dopo l'assassinio. Lyle ed Erik evitarono la pena di morte soltanto perché non avevano precedenti penali. Inizialmente rinchiusi in due carceri separati, i due sono stati riuniti nel 2018 e ancora oggi si battono per ottenere la scarcerazione. Nel frattempo si sono sposati con amiche di penna conosciute negli anni di detenzione (Lyle addirittura due volte). A differenza di altri noti assassini (anche italiani) desiderosi di oblio, i Menendez non sono mai usciti di scena. D'altra parte, il loro caso ebbe una risonanza tale da renderli famosissimi e sarebbe stato difficile finire nel dimenticatoio. La faccenda è tornata d'attualità nel 2017, quando è stato diffuso un documentario in cinque puntate, intitolato The Menendez Murders: Erik Tells All, in cui Erik ricorda i fatti in una lunga intervista telefonica. Nella serie compaiono anche filmati e foto inedite, oltre a interviste con persone coinvolte a vario titolo nella faccenda. Il tennis è sempre rimasto sullo sfondo. Non sapremo mai se Lyle ed Erik reagirono a degli abusi, o se il movente era soltanto economico. Ma oggi, ben conoscendo le dinamiche che si vedono nei tornei giovanili, possiamo davvero escludere che la frustrazione legata al tennis abbia avuto un ruolo in questa tragedia?