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LA STORIA

Una carriera fermata da uno psicologo. Per fortuna

Numero 1 junior e vincitore dell'Australian Open, quattro anni dopo Tiago Fernandes era impantanato nei tornei minori. Si è fatto aiutare da uno psicologo per capire se era il caso di lasciar perdere. L'ha portato con sé in Turchia e ha trovato ogni risposta: si è iscritto all'università e nel 2019 si è laureato in ingegneria. Non è stato il Nuovo Guga, ma la sua storia è un esempio.

Riccardo Bisti
8 gennaio 2021

Se Tiago Fernandes fosse diventato un campione, ci avrebbe obbligato a rivivere un weekend denso di dolore. Quella parola di sei lettere rappresenta un incubo: Maceiò. Una delle più folli esperienze in cento anni di Davis azzurra, chiusa con una dolorosa sconfitta simboleggiata dai crampi di Stefano Pescosolido. Meno di un anno dopo, proprio a Maceiò, sarebbe venuto al mondo Fernandes. Non erano una famiglia di tennisti: difficile credere che nel marzo 1992 i suoi genitori si trovassero al Tennis Park della capitale dell'Alagoas. Qualche anno dopo, tuttavia, il Brasile ha vissuto un miracolo chiamato Gustavo Kuerten. “Ho iniziato a giocare a sette anni, nel periodo d'oro di Guga – racconta Fernandes – stavo andando a un corso di nuoto e la radio parlò di un suo successo. Molti brasiliani della mia età hanno iniziato così”. Praticava anche futsal e nuoto, ma ben presto si capì che era più forte con la racchetta. Ha vinto tutto in Brasile, poi in Sudamerica, infine nel mondo. Aveva 14 anni quando vinse un torneo in Germania e fu messo sotto contratto da Octagon, una delle più importanti agenzie di rappresentanza. La stessa di Guga Kuerten. Poi andò negli Stati Uniti, e i buoni risultati all'Eddie Herr e all'Orange Bowl gli garantirono diversi sponsor. Era giunto il momento di dare una svolta alla sua vita. Maceiò è accogliente, ma lontana. Per qualche anno ha trovato una soluzione-ponte con Carlos Chabalgoity, ma nel dicembre 2007 hanno interrotto la collaborazione. Quando stava per accasarsi con Ricardo Acioly, si mise di mezzo Octagon. Fecero da tramite e lo misero in contatto con Larri Passos, storico coach di Kuerten. E così Fernandes ha scoperto il professionismo, trasferendosi nell'accademia di Balneario Camboriu, nello Stato di Santa Catarina.

La saudade dei brasiliani è ben nota, ma per Fernandes era qualcosa di strutturale, cronico. “Recarmi laggiù richiedeva sette ore, come per andare a Miami. Tre ore di volo fino a San Paolo, poi due di coincidenza, un'ora di fino a Florianopolis e un'altra d'auto fino a Balneario Camboriu. Io sono molto attaccato alla famiglia e mi sono trovato a trascorrere non più di quattro settimane all'anno a Maceiò”. Viaggiando in Europa, si è reso conto di come le distanze fossero diverse. I tennisti europei possono fare diverse soste a casa durante la stagione, mentre per i sudamericani è molto più complicato. Se poi la base d'allenamento in Brasile dista sette ore da casa... Addio. “Sembra una cosa ridicola, ma fa la differenza”. Però in campo andava bene. Tra i ragazzi è stato numero 1 del mondo e ha raggiunto il picco a Melbourne, quando vinse l'Australian Open junior nel 2010. “Non ricordo il momento esatto in cui hanno detto che ero il Nuovo Guga. Ma quando ho vinto in Australia i paragoni erano inevitabili. Sono stato il primo brasiliano a vincere uno Slam junior, il confronto era ovvio. La gente diceva che ero meglio di lui alla sua età. Il problema è che c'è una transizione da effettuare: lui è stato fenomenale, ma gli altri devono imparare”. A ben vedere, l'impatto con il professionismo non è stato male. Ad appena diciotto anni ha raggiunto una finale Challenger. “A Pernambuco” dice lui, parlando dello Stato laddove si trova la città di Recife. Non poté giocarla per un infortunio, ma sembrava l'inizio di una bella carriera. “Il fatto è che lì avevo affrontato soprattutto brasiliani e c'erano pochissimi europei. Poi sono andato in Europa, ho fatto tre mesi di qualificazioni ATP e Challenger e ho incontrato grandi difficoltà. Per la prima volta, avevo un'esperienza reale con il grande tennis. Il tennis si gioca in Europa, e io non facevo risultati. Non sono riuscito a fare un passo in più nemmeno nei Futures”.

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    La miglior classifica ATP mai raggiunta da Tiago Fernandes, l'1 agosto 2011. Quell'anno avrebbe raggiunto la sua unica finale in un torneo Challenger, a Recife. Ma in Europa avrebbe trovato una realtà ben diversa. 
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"Nei Futures l'ambiente non è sano ed è ripetitivo. Per diventare un giocatore devi uscirne in due anni, massimo tre. A me non è successo: non vincevo neanche lì"
Tiago Fernandes
2010: Tiago Fernandes vince l'Austraian Open junior battendo in finale l'australiano Sean Berman

Fernandes paragona la sua vita tennistica alla curva di un grafico. Fino a un certo punto è stata una salita ripida, degna di un top-player. Ma poi si è bloccata. Certo, ci si è messa di mezzo la pubalgia. Gli infortuni, specie se cronici, tolgono energie e fiducia. Lui ha perso sei mesi tra il 2012 e il 2013, “E quando pensavo di essermi ripreso, il dolore tornava. Giocare con il dolore è terribile. Non è soltanto l'infortunio, ma quello che porta con sé: la mancanza di fiducia”. E così Tiago è finito in una spirale che gli ha fatto passare la voglia di giocare a tennis. “Volevo essere ovunque tranne che sul campo. Erano pensieri dolorosi perché la curva si era arrestata. Ero numero 1 junior, giocavo con i migliori, ma loro erano cresciuti e io no”. Quando la realtà entra a gamba tesa sui sogni, arriva il bivio. Insistere o mollare? Qui la storia di Fernandes diventa interessante: molti (pardon, quasi tutti) vanno avanti nella speranza di trovare la settimana della vita, il risultato che dia la svolta. Lui ha fatto un semplice calcolo di costi e benefici.

A 21 anni ero lontanissimo dai top-100 e i miei risultati non facevano pensare che li avrei raggiunti. Nei Futures l'ambiente non è sano ed è ripetitivo. Per diventare un giocatore, devi uscirne in due anni, massimo tre. A me non è successo: non vincevo neanche lì”. Era anche una questione di aspettative. Fernandes non era come il Nuovo Nadal Carlos Boluda, che si sarebbe accontentato di un posto tra i top-100. “Non mi avrebbe dato gioia. Io volevo ripetere quello che era successo da junior, giocare i grandi tornei, stare fisso tra i primi 50. Se sei forte da ragazzo arrivano tante aspettative: va bene,  ma devi essere bravo a gestirle. Io ero arrivato a un punto in cui il rapporto qualità-prezzo della mia vita non era soddisfacente”. Si sforzava al massimo, ma la possibilità di diventare un buon giocatore – settimana dopo settimana – si indeboliva. “A 21 anni, alla quarta stagione da professionista, ho sentito che non era impossibile ma c'era ancora un abisso e le possibilità erano sempre meno”.

2011: Fernandes premiato da Longines. Accanto a lui, Francesca Schiavone
Tornato in patria dopo la vittoria a Melbourne, Fernandes fu travolto da un'ondata di popolarità

Voleva capire se l'impulso di smettere era dovuto agli scarsi risultati, oppure c'era qualcosa di più profondo, da macerarlo nell'anima. E allora si è fatto aiutare da uno psicologo, Nivaldo Tedesco. Una cosa seria. Nel maggio 2014, l'ha portato con sé ad Antalya per un paio di Futures. “Stavo male, ma lui mi ha aiutato a inquadrare la situazione. Mi ha fatto capire che il mio malessere non era un capriccio dovuto a una sconfitta. Quell'anno, in sette tornei, non ero mai andato oltre il secondo turno”. Oltre a giocare, in quei giorni fece parecchi esercizi e lavori psicologici. L'obiettivo era prendere una decisione razionale. “Immaginai la mia vita senza tennis, dovevo capire se in futuro mi avrebbe fatto male”. I fatti raccontano che il 6-4 4-6 6-4 incassato contro Denis Yevseyev è rimasta l'ultima partita della sua carriera. Una volta tornato in Brasile ha infilato le racchette in soffitta e si è iscritto all'Università. Ingegneria. Nel 2019 si è laureato e, ancora oggi, ringrazia quel passaggio perché gli ha evitato traumi. Oggi segue il tennis con serenità, gli piace giocarlo, non ha nessuna crisi di rigetto. Lo consiglierebbe a chiunque per le porte che può aprire.

Mi ha aiutato quando ho iniziato la carriera universitaria: quattro anni prima ero numero 1 del mondo, mentre lì ero uno studente al primo anno e stagista in un cantiere edile. Ero uno dei tanti e non mi aveva riconosciuto quasi nessuno. Ho dovuto scoprire il valore dell'umiltà, il dover riprogettare tutto da zero. Ho trovato un nuovo obiettivo, la situazione si è normalizzata e oggi sono sereno e felice”. Quella di Fernandes è una storia importante, quasi didattica. I numeri raccontano che una percentuale altissima di giovani promesse non riesce a sfondare, piombando – quando va bene – in un anonimato tecnico senza uscita. Talvolta nascono veri e propri drammi. Una volta, Flavia Pennetta disse che l'ausilio di uno psicologo è indispensabile nello sport professionistico. Alludeva a un potenziamento delle prestazioni, ma la vicenda di Tiago Fernandes rivela che un sostegno del genere può essere decisivo anche per capire se è giusto continuare o meno. Qualche giorno fa, parlando della top-10 junior di dieci anni fa, abbiamo delineato la differenza tra campioni e bidoni. Con la sua scelta di mollare a 21 anni, Fernandes ha rinunciato alla gloria sul campo da tennis. Ma non lo si può certo definire un bidone. Anzi.