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L'ANALISI

Tennisti, tasse e Principato di Monaco

Viste le polemiche sulla residenza a Monte-Carlo dei migliori tennisti italiani, ci siamo rivolti a un esperto per descrivere come funziona (per davvero) la tassazione per i “pro” nel circuito ATP, cercando di comprendere la convenienza di operazioni di questo tipo. Solo fatti, nessun populismo, un solo auspicio: maggiore onestà intellettuale. 

Riccardo Bisti
7 marzo 2024

L'argomento non passa mai di moda. Al minimo sconfinamento nella cultura pop, il tennis finisce nel mirino dell'opinione pubblica. Il tema è antico e sempre discusso, perché colpisce pancia ed emotività: la presunta immoralità di chi trasferisce la residenza all'estero, magari in un Paese a basso regime tributario, di quelli che vengono definiti paradisi fiscali. C'è passato Matteo Berrettini, che qualche anno fa fu braccato da una cronista di Report per la sua residenza a Monte-Carlo, adesso è il momento di Jannik Sinner. All'esaltazione per il suo successo in Australia si è accompagnata qualche voce di dissenso, poi alimentata dal mondo social, per la sua residenza nel Principato di Monaco. Opinionisti di grande seguito come Aldo Cazzullo e Massimo Gramellini hanno cavalcato il malcontento di una parte dell'opinione pubblica. “Come può Sinner diventare l'orgoglio italiano se non paga le tasse nel suo Paese?” ha scritto Cazzullo, che da qualche anno torna ciclicamente sul tema. Da parte sua, Gramellini ha aggiunto: “Non sono il suo commercialista, ma se riportasse la residenza in Italia diventerebbe definitivamente il mio tipo preferito di italiano”. Molto dibattuto nei giorni successivi al trionfo di Melbourne, il tema ha raggiunto l'apice nel mini-tour che Sinner ha svolto in Italia, tra conferenze stampa, servizi fotografici e ricevimenti ufficiali. Quando gli hanno chiesto della residenza, ha tagliato corto: “Quando avevo 18 anni, il mio coach di allora aveva la residenza a Monte-Carlo e ci sono andato anche io. Mi trovo bene, sono tranquillo, posso andare al supermercato senza problemi, mi posso allenare, ci sono le strutture adatte”. Al di là dell'allusione all'ex coach Riccardo Piatti, il cui figlio Rocco (n. 1.972 ATP) rappresenta il Principato di Monaco, il concetto è chiaro: Sinner non ne parla volentieri. Un po' per carattere, un po' perché (supponiamo) è stato consigliato in questo senso. Ma è opportuno andare oltre il populismo e la ricerca di facile consenso: e allora addentriamoci nel tema della fiscalità dei tennisti professionisti, con un focus sui giocatori di nazionalità italiana.

Un'analisi rigorosa, attenta e approfondita fa scoprire che la realtà è ben diversa dal luogo comune “fugge dall'Italia per non pagare le tasse”, ma allo stesso tempo evidenzia come la residenza nel Principato di Monaco, soprattutto per giocatori di alto livello, risulti molto conveniente per ridurre (e in certi casi azzerare) la dispersione fiscale dei propri guadagni. Per affrontare un tema così complesso ci siamo fatti guidare da Claudio Cipollini, avvocato cassazionista e Assistant Professor in diritto tributario internazionale presso l'Università di Amsterdam. A parte il background professionale, Cipollini è grande appassionato di tennis e conoscitore delle dinamiche del circuito mondiale: per questo è la persona adatta per affrontare il tema, a maggior ragione dopo la recente riforma in materia di fiscalità internazionale adottata dal Decreto Legge 209-2023, in vigore dall'1 gennaio. Non tutti sanno che è stato introdotto un nuovo concetto per definire la residenza fiscale di una persona fisica. “Nel caso dei tennisti, non è particolarmente interessante la residenza anagrafica – dice Cipollini – perché è chiaro che un giocatore con residenza all'estero avrà l'accortezza di iscriversi all'AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all'Estero, ndr). Stesso discorso per il concetto di permanenza, ovvero il 50%+1 dei giorni all'anno passati nel Paese di residenza. Giocando 15-20 tornei all'anno, è chiaro che il giocatore non può trascorrere tutto questo tempo nella propria abitazione. Allora diventa cruciale il concetto di domicilio, che la normativa vigente definisce come centro delle relazioni personali e familiari di una persona”. Significa che si può avere la residenza all'estero, ma se buona parte della vita (famiglia, affetti, affari, quotidianità) si svolge in Italia, il soggetto è da considerarsi fiscalmente residente in Italia.

A prima vista, sembrerebbe una possibile rivoluzione per ricondurre in Italia il gettito fiscale di chi ha residenza altrove. “Ma in realtà non c'è alcun effetto pratico – spiega Cipollini – poiché esiste un trattato (risalente al 2015) tra Italia e Principato di Monaco, utile per risolvere il conflitto tra la normativa italiana e quella del Principato. Si tratta infatti di soggetti che, almeno in prima battuta, potrebbero essere considerati fiscalmente residenti in entrambi i Paesi, ovverosia nel Principato di Monaco sulla base della loro registrazione anagrafica e, al contempo, in Italia sulla base del domicilio inteso oggi quale luogo delle relazioni personali e familiari. Il trattato prevede alcune regole, definite tie-breaker rules, di ordine gerarchico (se si verifica la prima, assorbe le altre), per stabilire la residenza fiscale e risolvere il conflitto tra le rispettive normative nazionali. La prima di queste regole dà la precedenza al Paese in cui si dispone di un'abitazione permanente, di proprietà o in affitto”.
In altre parole, è sufficiente che un tennista abbia l'accortezza di non avere un'abitazione in Italia, ma solo nel Principato, per ottenere la residenza a Monaco?
“Corretto. Se invece il conflitto permane, il secondo criterio parla di centro di interessi vitali. In questo caso, conteranno non solo le relazioni personali e familiari, ma anche quelle patrimoniali (per esempio affari e investimenti)”.
Abbiamo fissato il primo punto: nonostante la nuova legge – a prima vista – sembri adatta per recuperare la fiscalità perduta, nei fatti è sufficiente che il cittadino eviti di avere un'abitazione in Italia per non correre il rischio di risultare fiscalmente residente nel nostro Paese. Nel caso dei tennisti è molto semplice, vista la natura nomade del loro lavoro.

Il dibattito completo con Claudio Cipollini su "Tennis Time - Il Podcast del Tennis"

«L'aliquota IRPEF per chi dichiara oltre 50.000 euro è del 43% per la parte di reddito superiore a tale scaglione, ma (in virtù degli accordi secondo il modello OCSE contro le doppie imposizioni) l’Italia riconosce un credito d’imposta. Significa che il fisco italiano “sconta” la percentuale già pagata all'estero, imponendo soltanto la differenza» Claudio Cipollini

Ma veniamo ai guadagni: è vero che un tennista residente a Monte-Carlo intasca di più? Quanto è più conveniente? “Partiamo dai guadagni – dice Cipollini – un tennista professionista ha tre fonti principali di reddito: 1) Prize money ufficiali 2) Contratti di sponsorizzazione legati alla partecipazione a singoli eventi 3) Contratti di sponsorizzazione che non sono riconducibili a un singolo evento. Per quanto riguarda i primi due c'è un certo tipo di tassazione, mentre le cose cambiano per il terzo”. In entrambi i casi bisogna rifarsi al Modello OCSE di convenzione, per evitare le doppie imposizioni, ovvero che un cittadino debba pagare le tasse sia nel Paese della fonte (dove gioca il torneo, per intenderci) sia nel Paese di residenza. Esistono trattati bilaterali tra i vari Paesi che disciplinano il tema. L'Italia ha accordi di questo tipo con tutti i Paesi in cui si giocano tornei ATP-WTA e prove del Grande Slam. Il tennista residente in Italia, dunque, ha questa garanzia ovunque giochi. Tale faccenda non si estende al Principato di Monaco: non serve, poiché a Monte-Carlo non ci sono imposte sulle persone fisiche. 

“Sulla base dei trattati bilaterali, lo Stato della fonte ha la possibilità di tassare il premio, ma occorre tenere conto anche di cosa prevede in concreto la normativa interna di ogni singolo Paese ospitante. Difatti, è possibile individuare tre modelli diversi di tassazione nello Stato della fonte – spiega Cipollini – il primo modello, utilizzato soltanto negli Emirati Arabi e a Monte-Carlo (fino al 2020 era così anche in Olanda, ma il governo ha recentemente cambiato impostazione), non prevede nessuna ritenuta alla fonte. Chi gioca a Dubai incassa esattamente quanto scritto sul prize money. Il secondo è quello utilizzato nella stragrande maggioranza dei Paesi, in cui il premio viene tassato alla fonte. Il Paese in cui si gioca trattiene una parte del compenso: la percentuale è variabile, ma la si può generalmente collocare intorno al 30%. C'è poi il terzo caso, quello del Regno Unito: il governo britannico non si accontenta di tassare i premi, ma pretende anche una percentuale legata ai contratti di sponsorizzazione “puri”, ovvero non riconducibili a un Paese o a un torneo. Il calcolo, solitamente, si basa sui giorni di permanenza nel Regno Unito. In linea di massima, se un giocatore trascorre un mese all'anno nel Paese, un dodicesimo dei suoi accordi di sponsorizzazione finisce al fisco britannico”.
Facciamo qualche esempio.
1) Chi gioca a Dubai riceve dal torneo esattamente la cifra indicata nel prize money ufficiale. Per intenderci, gli organizzatori emiratini hanno versato a Ugo Humbert 550.140 dollari, senza alcuna ritenuta.
2) Chi gioca qualsiasi altro torneo è soggetto a un'imposizione alla fonte. Vincendo l'Australian Open, Jannik Sinner ha intascato un prize money ufficiale di 3.150.000 dollari australiani. Tuttavia, il fisco australiano ha trattenuto una percentuale intorno al 30%. Al netto del cambio e della trattenuta fiscale, si può stimare in poco più di 1,3 milioni di euro la reale cifra bonificata all'altoatesino.
3) Nel caso di tornei nel Regno Unito, c'è anche il problema delle sponsorizzazioni. Prendiamo Novak Djokovic: con la finale a Wimbledon, lo scorso anno ha guadagnato 1.175.000 sterline (1,37 milioni di euro). A questa cifra ha dovuto detrarre il dovuto al fisco britannico, che però reclama anche la percentuale sui guadagni di Nole in proporzione alla sua permanenza in Gran Bretagna. Secondo Forbes, il serbo intasca circa 25 milioni all'anno in sponsorizzazioni varie. Ipotizzando una permanenza di 20 giorni in UK, non è assurdo pensare che il fisco britannico reclami circa il 5% di tali guadagni (oltre un milione). Morale della favola? Non è azzardato supporre che Djokovic abbia giocato a Wimbledon gratis, o giù di lì.

Il campo centrale dell'Aviation Club di Dubai: gli Emirati Arabi non applicano alcuna ritenuta al prize money per i residenti all'estero

Questo filmato prova a illustrare le ragioni per cui tanti tennisti vanno a vivere a Monte-Carlo

Tali modelli, tuttavia, riguardano soltanto l'incasso alla fonte e non considerano le tasse nel Paese di residenza. E qui c'è la prima grande differenza tra risiedere a Monte-Carlo o in Italia: per chi risiede nel Principato, le ritenute terminano nei tre punti indicati in precedenza poiché non ci sono ulteriori prelievi. In altre parole, chi abita a Monte-Carlo prende il 100% di quello che intasca a Dubai, e circa il 70% di quello che guadagna nel resto del mondo (a parte il caso britannico). Al contrario, chi vive in Italia deve pagarci le tasse anche nel Paese di residenza. “L'aliquota IRPEF per chi dichiara oltre 50.000 euro è del 43% per la parte di reddito superiore a tale scaglione - racconta Cipollini - ma, in virtù dei degli accordi secondo il modello OCSE contro le doppie imposizioni, l’Italia riconosce un credito d’imposta. Significa che il fisco italiano “sconta” la percentuale già pagata all'estero, imponendo soltanto la differenza, quantificabile al 13% (in via di approssimazione e supponendo una tassazione con aliquota media del 30% nel Paese della fonte)”. In altre parole, il tennista residente in Italia deve versare circa un ulteriore 13% rispetto a quanto trattenuto alla fonte.

Se Lorenzo Sonego (che risiede a Torino, unico membro del team di Coppa Davis con residenza in Italia) avesse vinto l'Australian Open, il suo incasso netto sarebbe stato di 1,15 milioni di euro rispetto ai circa 1,32 intascati da Sinner. Ma c'è di più: il residente in Italia perde il vantaggio di giocare in Paesi senza ritenuta alla fonte. La scorsa settimana, Sonego ha ricevuto un bonifico di 43.025 dollari a Dubai (perché gli Emirati Arabi non applicano ritenute), ma in Italia dovrà pagarci il 43%. Insomma, per il tennista residente in Italia non fa differenza il luogo in cui gioca: dovrà sempre detrarre il 43% dei guadagni, con la sola differenza nella distribuzione (Paese della fonte + Italia, oppure soltanto Italia). La convenienza nell'abitare a Monte-Carlo diventa ancora più significativa se parliamo dei contratti di sponsorizzazione “puri”, i brand che si legano permanentemente a un giocatore. “In quel caso, l'articolo 7 del Modello OCSE prevede che la tassazione sia di esclusiva pertinenza del Paese di residenza” dice Cipollini. Ed eccolo, il grande vantaggio nell'abitare a Monte-Carlo: poiché in certi casi i guadagni extra-tennis sono superiori rispetto a quelli ufficiali, il risparmio fiscale può essere enorme. Se è vero – come riportano varie fonti giornalistiche -.che Nike versa 15 milioni all'anno a Sinner (150 per un accordo decennale), grazie all'abitazione monegasca tutto il denaro finisce nelle tasche di Jannik.
E allora chiediamo a Cipollini: se Sinner risiedesse in Italia, i 15 milioni annui che prende da Nike diventerebbero 8,55?.
“Corretto, salvo ovviamente la possibilità di dedurre le spese inerenti dal reddito imponibile e ridurre in tal modo l’imposta dovuta”.

Il quadro è più chiaro: se ci limitiamo ai soli compensi legati ai tornei, non c'è una differenza così grande tra l'abitare in Italia o a Monte-Carlo. Fatta eccezione per il torneo di Dubai, la forbice è del 13%. “Ma bisogna considerare che il costo della vita a Monte-Carlo è ben più alto, e poi non è così semplice accedere alla residenza – ricorda Cipollini – per farlo, bisogna versare almeno 500.000 euro in una banca monegasca, avere un alloggio stabile (di proprietà o in affitto), oltre ad avere la fedina penale pulita. Per tennisti al di sotto del numero 100 ATP, senza un reddito particolarmente elevato, non è così conveniente organizzare la residenza a Monte-Carlo. Magari un giovane può trovare conveniente allenarsi con alcuni dei più forti e investire sull'avvenire, anche in termini di futuri benefici fiscali”. La grande differenza, dunque, sta nei guadagni legati alle sponsorizzazioni. E allora andiamo al punto in modo ancora più diretto: secondo Cipollini - in percentuale - quanto influisce la spinta fiscale nel trasferire la residenza a Monte-Carlo, e quanto le ragioni tecnico-logistiche? “Se si tratta di giocatori che possono già vantare importanti contratti di sponsorizzazione, ritengo che le motivazioni siano soprattutto di natura fiscale, direi intorno al 70%, se non l'80%. Il discorso cambia se parliamo di giocatori di classifica inferiore, senza grossi sponsor. In quel caso non vedo chissà quale convenienza economica nel trasferirsi a Monte-Carlo, anzi, è possibile che ci siano più oneri che benefici in virtù delle condizioni di cui parlavamo sopra (il deposito in una banca, il costo della vita). Se da un punto di vista economico il gioco può non valere la candela, chi decide di andare ugualmente a Monte-Carlo lo fa per stare in un determinato ambiente, usufruire di mezzi e infrastrutture con la speranza di raccogliere sponsorizzazioni importanti in futuro. Per questo, direi che la percentuale si ribalta: lo fanno all'80% per motivi tecnico-logistici”.

Questo breve viaggio nel mondo della fiscalità legata al tennis professionistico ci ha consentito di farci un'idea corretta e precisa su un tema ricorrente e divisivo, per questo affascinante. Partendo dal presupposto che i nostri giocatori (e chi li consiglia) agiscono nel pieno rispetto delle regole, l'auspicio è che ci sia una maggiore onestà intellettuale. Nessuno critica la scelta di risiedere a Monte-Carlo: chiunque lo farebbe, perché la differenza di peso nella bilancia costi-benefici è davvero notevole (specie per i giocatori di alto livello), ma sarebbe opportuno ammettere che la questione fiscale ha una netta preponderanza, anche perché un giocatore di alto livello avrebbe risorse e opzioni per svolgere allenamenti di qualità in qualsiasi parte del mondo, senza necessariamente infilarsi tra Ventimiglia e la Costa Azzurra. Per questo, chi scrive ritiene eticamente comprensibile (per quanto impraticabile) la proposta-provocazione del Codacons diffusa dopo il successo in Coppa Davis: l'obbligo della residenza in Italia per rappresentare il Paese nelle competizioni di bandiera (Davis e Giochi Olimpici), senza ovviamente andare a toccare l'italianità nelle gare individuali. Sarebbe un interessante esperimento sociale: a parole, i giocatori si dicono emozionati e di provare la pelle d'oca quando si gioca per la bandiera. Frasi certamente sincere, ma se fosse introdotto l'obbligo di residenza per giocare in Davis... in quanti si sposterebbero in Italia? E vale il discorso inverso: se a Monte-Carlo non ci fossero agevolazioni fiscali, siamo certi la maggioranza assoluta dei top-players vi prenderebbe la residenza? Forse sarebbe esagerato chiedere la residenza in Italia per giocare in Davis (o adottare la tassazione di cittadinanza come fanno gli Stati Uniti: modello troppo invasivo nella vita dei cittadini, con problemi nella mobilità e tanta burocrazia, oltre a dover pagare le tasse in due Paesi), ma servirebbe a comprendere chi sente per davvero il concetto di Patria e Bandiera, tanto pubblicizzato dalle istituzioni sportive che brillano – di riflesso – grazie ai successi di atleti che vivono (legittimamente) all'estero.