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WIMBLEDON

Un uomo fedele alle sue idee

Molti pensavano – e qualcuno sperava – che Novak Djokovic avesse distrutto la sua carriera con i fatti australiani. Il serbo ha accettato le conseguenze delle sue scelte ed è risorto ancora una volta. Restando fedele alle sue idee, non ha mai replicato ad accuse e ironie. Ma le parole non servono: forse basterebbe un sequel del cortometraggio “Ajde”

Riccardo Bisti
11 luglio 2022

Il bello delle emozioni sta nella loro immensità. Toccano vette irraggiungibili per le parole. Per questo, non è facile raccontare il significato del successo di Novak Djokovic a Wimbledon, non tanto per il pallottoliere dei numeri: 21esimo Slam, settimo titolo a Wimbledon e bla bla bla... Negli ultimi mesi, il film della sua vita si è arricchito di capitoli che si prestano a una narrazione infinita. Ci sono tanti significati dietro l'immagine di un uomo di 35 anni che solleva per la settima volta il suo trofeo del cuore, quello che aveva sognato per la prima volta il 4 luglio 1993, quando vide in TV il primo successo di Pete Sampras. Ed è divertente che continui a confondersi, parlando del 1992. Quasi esilarante che lo abbia fatto sotto gli occhi di coach Goran Ivanisevic, che la finale del 1992 l'ha giocata per davvero. La rinascita Slam di Djokovic non poteva che arrivare a Wimbledon. Come nel 2018, quando si mise definitivamente alle spalle il momento più duro della sua carriera. O come nel 2011, anno del suo primo successo. La vittoria di undici anni fa è stata immortalata in un cortometraggio di cinque minuti e mezzo, “Ajde. The Movie”, realizzato dall'allora 25enne Zuzanna Szyszak. Tifosa di Djokovic, impiegò sei mesi a realizzare il suo lavoro. Semplice, delicato, emozionante. Dalla nascita del sogno al suo compimento, passando per i bombardamenti NATO su Belgrado e i problemi fisici nella prima parte della carriera. Zuzanna non lo fece per soldi ma ebbe le sue soddisfazioni, a partire da un invito dell'ambasciata polacca a Belgrado.

Da allora sono passati sette anni e oggi fa l'animatrice, l'illustratrice, l'insegnante. Forse non ha il tempo di realizzare il sequel di “Ajde”, ma oggi ce ne sarebbe un gran bsogno. E lei sarebbe la persona giusta. Passione e sensibilità le permetterebbero di mettere in immagini e musica quello che è difficile descrivere a parole. Sarebbe la risposta migliore a quello che ha dovuto passare Djokovic nella sua carriera, in particolare negli ultimi mesi. Ci vorranno anni per razionalizzare – e dare la giusta collocazione – a quanto accaduto in Australia. Colpevole di non essersi sottoposto al vaccino anti-COVID, il serbo è stato trattato alla stregua di un reietto della società, recluso in un centro di detenzione per immigrati ed espulso dal Paese, non perché la sua presenza in Australia fosse illecita, ma perché il Ministro dell'Immigrazione ha ritenuto che il suo status di non vaccinato avrebbe potuto alimentare sentimenti no-vax in un periodo delicato della pandemia. Un evento di portata storica: Il tennista più ricco di sempre, uno dei più titolati, uno dei più grandi di sempre, esposto a una gogna senza precedenti. Chi ha tempo e voglia, può cercarsi quanto detto e scritto in quei giorni. Una distruzione mediatica del personaggio, definito il campione no-vax che ha provato ad aggirare le regole. La verità è che Djokovic aveva agito secondo le norme in vigore in quel momento, che consentivano l'ingresso in Australia a chi aveva avuto il COVID nei novanta giorni precedenti, indipendentemente dallo stato vaccinale. Ma di queste evidenze era difficile trovare traccia. I titoli a nove colonne ribadivano che i non vaccinati non potevano entrare in Australia. Punto. I fatti erano più complessi.

«Non è stato facile chiudere il capitolo australiano, perchè tutti me lo ricordavano. Questo mi ha causato turbolenze interiori. Mi sono reso conto di avere bisogno di tempo per ritrovare un equilibrio ottimale, sia dentro che fuori dal campo» 
Novak Djokovic
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Il cortometraggio "Ajde: the Movie". Gli ultimi anni hanno fornito materiale per un sequel

Intendiamoci: Djokovic è un essere umano, e come tutti può sbagliare. Ha sbagliato a organizzare un torneo di esibizione a inizio pandemia, e ha sbagliato – nella migliore delle ipotesi – ad accogliere un giornalista dell'Equipe a Belgrado sapendo di essere positivo al virus. Qualcuno ha ipotizzato che i certificati di positività non fossero veritieri, segnalando alcune incongruenze. Sospetti leciti, perché la realtà deve essere fotografata da ogni prospettiva, soprattutto se si ha il compito di raccontarla. “Quando sono tornato dall'Australia, mi sono lasciato tutto alle spalle. Ero pronto a ripartire – ha detto dopo il successo a Wimbledon – ma poi non è stato facile chiudere quel capitolo, perchè tutti me lo ricordavano. Questo mi ha causato turbolenze interiori. Mi sono reso conto di avere bisogno di tempo per ritrovare un equilibrio ottimale, sia dentro che fuori dal campo. Il gioco c'era, conosco le mie qualità. Ma c'erano queste faccende extra-tennis che hanno generato pressione e distrazione, ma anche per chi mi sta accanto. Questi problemi hanno colpito più loro che me, perchè mi stavano proteggendo. Ma io li sentivo attraverso loro”. I fatti australiani potevano rappresentare la distruzione della sua carriera. Qualcuno – anche di molto famoso, per nulla conoscitore del tennis (e dunque della tempra di Djokovic) – ha sostenuto che l'avesse già distrutta, rovinata con le sue stesse mani. Sia in termini di reputazione che di palmares. In verità, Djokovic ha fatto semplicemente quello che sentiva. Ha scelto per se stesso, per il suo corpo, senza cercare di condizionare gli altri.

Dopo il successo a Wimbledon c'è stato un interessante botta e risposta via Twitter tra Ben Rothenberg (uno dei più noti giornalisti del settore) e Jelena Djokovic. Rothenberg ha ricordato che – salvo improbabili cambiamenti sulle norme di immigrazione – Djokovic non potrà giocare lo Us Open. “Ha fermamente escluso di vaccinarsi, affermandosi come un posterboy anti-vax”. La signora Djokovic ha replicato, sostenendo che il marito ha effettuato una decisione per sé, senza voler condizionare nessuno. Rothenberg ha insistito, dicendo che la sua scelta (per certi versi autolesionista) lo ha reso – volente o no – un'icona del movimento anti-vax. “Credo che ogni cittadino, in particolare i personaggi pubblici, abbiano il dovere di agire in modo responsabile con azioni e messaggi di salute pubblica durante la pandemia e Djokovic, per il campione che è e l'influenza che ha, mi ha deluso profondamente”. A chiudere il dibattito è stata Jelena: “Grazie per aver condiviso le tue convinzioni. Spero che tu non venga giudicato per esse, o diventare un posterboy per odio e bullismo. Anche tu sei una figura influente, per favore non continuare a deludere, a meno che non sia il tuo ruolo”. Non è nostro compito entrare nel merito della questione vaccinale, ma cosa avrebbe dovuto fare Djokovic se non ha mai creduto al vaccino? In nome di un gesto di responsabilità avrebbe dovuto farlo? Essere un personaggio famoso significa dover rinnegare le proprie idee se sono contrarie a quelle della maggioranza? Djokovic sarebbe stato attaccabile se avesse alimentato la propaganda no-vax. Cosa che non ha mai fatto.

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16 gennaio 2022: Novak Djokovic è costretto a lasciare l'Australia. È il punto più basso della sua carriera

La scelta di non vaccinarsi di Novak Djokovic è tornata d'attualità in queste ore: il botta e risposta tra Ben Rothenberg e Jelena Ristic

Non sappiamo se il serbo abbia agito in modo limpido ai tempi della positività al COVID di dicembre. Al netto dei sospetti (leciti, per carità), gli elementi a disposizione raccontano che non ha violato nessuna regola – ma è stato punito ugualmente – e si è assunto le responsabilità delle sue scelte, vedi la mancata partecipazione a Indian Wells e Miami, oltre a quello che potrebbe accadere per lo Us Open. Per questo, la vittoria a Wimbledon ha un valore immenso perché arriva dopo un periodo durissimo. E profuma di rivincita, di epicità. Djokovic merita rispetto perché è un essere umano e si comporta come tale, restando fedele alle sue idee, anche negli errori. Ne ha commessi molti: come quando disse che il Kosovo è serbo dopo il primo successo in Australia, scatenando disordini di piazza. Come quando ha lasciato Boris Becker e Marian Vajda per affidarsi a un coach-guru (Pepe Imaz), la cui presenza è coincisa col suo periodo di minor successo. Come quando ha tirato una pallata a una giudice di linea, prendendosi una giusta squalifica allo Us Open. Ma ha sempre agito secondo coscienza, mettendoci la faccia in prima persona, accettando le conseguenze dei suoi gesti. Per qualcuno è un anti-personaggio, per altri è un anti-eroe, per altri ancora è un disturbatore che ha rovinato la narrativa della rivalità perfetta tra Roger Federer e Rafael Nadal, danneggiando il giocattolo mediatico a suon di vittorie.

Nella sua ingenuità giovanile, pensava che la sua genuinità lo avrebbe portato ad essere amato come loro. Imitazioni e istrionismi non sono serviti a migliorare la sua immagine. Prima ci ha sofferto, poi ha capito che era inutile insistere. Pur restando fedele a se stesso, si è concentrato solo su quello che può controllare: il suo tennis. Adesso Djokovic si gode la rivincita, nel giorno in cui un noto professore che gli aveva dato del “babbeo che gioca bene a tennis” è stato costretto a cancellare – con tanto di scuse - un tweet di body-shaming nei confronti di una ragazza disabile. In questi mesi, Djokovic non ha mai replicato ad accuse e ironie. Non inizierà adesso, anche perché ha davanti a sé la sfida più difficile: diventare il tennista più vincente di tutti i tempi, pur accettando le conseguenze delle sue scelte. Scelte che – impedendogli di giocare a New York e forse a Melbourne – renderanno ben più difficile la rincorsa alla sua dolce ossessione. Ma Djokovic ha fatto una scelta. Ezra Pound diceva: “Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui”. Novak Djokovic ha scelto di lottare. Una lotta che starebbe benissimo in un cortometraggio di Zuzanna Szyszak. Immagini e suoni sarebbero la risposta giusta, definitiva, a quello che Djokovic ha dovuto sopportare nei momenti più bui. Molto più delle parole di un articolo giornalistico.