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Il tennista che faceva tutto da solo

L'Italia vanta due top-10 e tanti elementi di livello, ma soltanto vent'anni fa il numero 1 azzurro era Gianluca Pozzi, forse il giocatore più sottovalutato nella storia del tennis italiano. Ha trascorso una carriera senza allenatore, togliendosi le soddisfazioni più belle a 35 anni. L'irripetibile storia di un self made player.

Riccardo Bisti
18 dicembre 2021

Lei ha una gran voglia di giocare in Coppa Davis. Tuttavia, nonostante abbia buone credenziali, credo che le rimarrà”. La rubrica sulla Gazzetta dello Sport si chiamava Porto Franco, dal nome del giornalista (Franco Arturi) che dialogava con i lettori. Anni 90, ultimi attimi prima dell'avvento di internet. Più che dalla laconica risposta di Arturi, l'appassionato rimase colpito dalla lettera. A scrivere era Gianluca Pozzi da Bari, tennista professionista, la cui unica colpa era di essere un self made player, cresciuto da solo, senza aiuti, e con un tennis (e un carattere) diverso rispetto a tutti gli altri italiani. Scocciato per l'ennesima mancata convocazione, scrisse al giornale più letto d'Italia. Raccontò i suoi risultati, le sue caratteristiche tecniche. Uno sfogo, più che un'auto-candidatura. Stupore, dicevamo, perché fino ad allora aveva scelto un basso profilo. Sebbene fosse nato e cresciuto a Bari, Pozzi sembrava un alieno rispetto agli altri italiani. Una volta, Rino Tommasi disse (“a costo di prendermi una querela”) che quel mancino pugliese aveva una vaga somiglianza con John McEnroe. Di sicuro era uno dei pochissimi a maneggiare la mitica Dunlop Max200 G Pro, racchetta tanto affascinante quanto difficile, negli anni dell'esplosione delle oversize. Pozzi l'ha utilizzata fino al 1997. E Tommasi non l'aveva visto giocare da ragazzino, quando il movimento al servizio era ancora più simile a quello di McEnroe.

Il tempo ha regalato qualche rivincita a Pozzi. A dispetto di Porto Franco, in Davis avrebbe esordito comunque, togliendosi lo sfizio di giocare contro Roger Federer (sia pure a risultato acquisito), nel weekend dell'esordio dello svizzero. Ma quella di Pozzi è una storia da raccontare, perché in qualcosa è stato antesignano. In altro, invece, rimane un incredibile unicum. Partiamo dalla prima: ha vissuto la sua miglior stagione nel 2000, a 35 anni suonati, chiudendo l'anno al numero 1 d'Italia. Oggi è normale essere competitivi a quell'età, all'epoca era un miracolo. Soddisfazione immensa per lui, schiaffo morale per un sistema – quello italiano – che raccoglieva macerie dopo aver seminato il nulla. Un sistema in cui Pozzi non era mai entrato. Glielo avevano fatto vedere da fuori, senza dargli la possibilità di entrare, come un ragazzino fuori dal negozio di caramelle, ma a corto di monete. La metafora è potente, perché i Pozzi erano una famiglia con discrete possibilità. Papà Valentino, un lombardo trapiantato a Bari, mise al mondo 7 figli (sei maschietti e una femminuccia) e grazie al suo lavoro potè permettersi una villa fuori città. Erano gli anni del boom, inevitabile costruire un campo da tennis in giardino. Valentino Pozzi vendeva autobus per conto della Macchi, società di Bologna. Era l'agente che si occupava di Puglia e regioni limitrofe. Il tennis piaceva, al piccolo Gianluca, e giocava anche piuttosto bene. Così a 10 anni si iscrisse alla SAT presso la Società Ginnastica Angiulli, poi a 14 il passaggio al CT Bari. L'anno dopo passò da C4 a B2, ma la FIT non lo considerava mai.

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«Al mio primo circuito satellite mi sono piazzato al quinto posto, nonostante abbia saltato due tornei perché alla terza tappa in Spagna mi beccai un'intossicazione. Ho bevuto l'acqua del rubinetto, che in quei posti in Spagna non si poteva bere» 
Gianluca Pozzi

Gianluca Pozzi ha sfidato i migliori della sua epoca: qui una sconfitta contro Pete Sampras al Masters 1000 di Toronto

A Formia andavano altri, in particolare Paolo Cané e Michele Fioroni, mentre lui faceva una vita normale. Liceo scientifico al mattino, allenamenti al pomeriggio. Con lui, il maestro Luciano Colaluca e il preparatore atletico Vito Franco. Giusto menzionarli, perché sarebbero rimasti i suoi unici punti di riferimento. E qui viene la particolarità, l'unicum di Pozzi: per tutta la carriera – una signora carriera – è rimasto senza coach. Ha imparato tutto da solo, ha fatto tutto da solo, si è preso gioie e dolori in solitudine. Oggi sembra fantascienza, nell'epoca in cui i clan dei giocatori comprendono decine di persone, dall'head coach fino al dog-sitter. Una volta, Gianluca è arrivato agli ottavi di finale dello Us Open. Quello contro Bernd Karbacher era il match più importante della sua vita. Nel box del tedesco c'erano 7-8 persone tra tecnici, dirigenti DTB, amici, familiari. Quello di Gianluca era vuoto. Perse in quattro set: non per questo, ma il ricordo è vivido. Così come la sua capacità di toccare la palla, con un serve and volley costruito ma elegante, un dritto molto personale e un rovescio stiloso ed efficace. Sì, un McEnroe in miniatura. Ma la sua tendenza alla solitudine lo teneva lontano dai riflettori (e dalle convocazioni in Davis).

Ha vinto il suo unico torneo ATP a 16.000 km da casa, sul cemento di Brisbane, poi ha giocato una prestigiosa finale a Vienna. In mezzo, tantissimi piazzamenti e dieci titoli Challenger. Nel 2000 arrivò in semifinale al Queen's, battendo Agassi per ritiro: fu il giocatore più anziano a superare un numero 1 ATP, poi arrivò Federer e scippargli il record. Qualche settimana dopo fece ottavi a Wimbledon. Come detto, chiuse l'anno al numero 43 ATP, salvo poi spingersi fino alla 40esima posizione. “Ho imparato da solo, guardando gli altri giocatori – diceva tempo fa – mi iscrivevo ai tornei da solo, inizialmente mandando dei fax. Non potevo fare altrimenti, perché una volta chiesi alla FIT di iscrivermi a un circuito satellite e si dimenticarono di farlo”. Parlava a bassa voce, sembrava quasi dimesso, ma per lui è validissimo un vecchio proverbio: mai giudicare dalle apparenze. Ci vuole una forza interiore gigante per diventare professionista dopo essere stato escluso da ogni nazionale, nonostante la semifinale al Trofeo Bonfiglio e una vittoria al torneo internazionale di Bari (con tanto di vittoria su Stefan Edberg). Una volta gli fecero giocare il Roland Garros junior, ma solo perché si era infortunato Fioroni. Fu convocato in Coppa Valerio, ma fece la riserva per tutto il torneo. Lui continuava la sua vita, tant'è che dopo la maturità scientifica (42, ma meritava almeno 48: gli fecero pagare il fatto che dedicasse così tanto tempo allo sport) si iscrisse a Economia e Commercio.

Gianluca Pozzi è nato a Bari il 17 giugno 1965. Ha chiuso sette stagioni tra i top-100 ATP

Il famoso match contro Marat Safin allo Us Open 2000, impreziosito dal commento di Rino Tommasi e Gianni Clerici. A questo indirizzo, le fasi finali

Ha tenuto duro dopo la morte del padre ad appena 57 anni, ha tenuto duro quando il CT Bari lo squalificò a vita perchè aveva scelto di giocare le qualificazioni di un torneo internazionale a Galatina, anziché partecipare a un Campionato a Squadre di B. “A 16 anni devi fare esperienza, i miei genitori e il mio allenatore erano d'accordo con me. Poi mi riqualificarono quando avevano bisogno di un giocatore per la Serie A”. Ha tenuto duro quando si è dovuto operare di appendicite mentre stava giocando il torneo di Miami (doveva affrontare Boris Becker, tornò in campo un mese dopo), e ha tenuto duro quando gli hanno rimosso un piccolo tumore a un osso nel 1996. Ma di queste cose non si parlava nei giornali, ancora meno nelle TV. Proprio per questo, il ricordo di Pozzi è un po' sfumato non solo tra i giovani, ma anche per l'appassionato medio. Molti lo ricordano soprattutto per il gran match contro Marat Safin allo Us Open 2000. Lo tenne in campo per cinque set, fu di gran lunga l'avversario più ostico nella corsa al titolo del russo. Ma Gianluca Pozzi è stato molto di più, un campione silenzioso che ha ottenuto grandi successi contando solo sulle proprie forze. Non sappiamo se ascolti Ligabue, ma viene in mente un passaggio la canzone “I duri hanno due cuori”.
Non ha tempo né voglia di pregare Dio perché
Vuol contare soltanto sul suo dolore, su sei colpi e infine su di sé
A ben vedere, negli ultimi anni di carriera non era più solo, perché si è accompagnato a Cristina, diventata sua moglie il 29 novembre 1997. Pilastro per combattere la solitudine e la monotonia, soprattutto in posti anonimi o già visitati decine di volte.

Dopo il matrimonio, la sua carriera ha vissuto un boost fino a restituirgli quello che aveva seminato. Numero 1 d'Italia a 35 anni, poi presidente dell'Associazione Professionisti Tennis, in cui si radunavano tutti i migliori azzurri dell'epoca per protestare contro le politiche federali dell'epoca. Altro che dimesso, insomma. Ma qual è stato il segreto di Pozzi? Facile: la passione. Amava (e ama ancora oggi) il tennis. A differenza di altri, guardava le partite degli avversari e se lo gustava anche in TV. Uno così sarebbe diventato un ottimo coach, ma ha sempre avuto le idee chiare: dopo vent'anni in giro per il mondo, non gli andava di trascorrerne altrettanti nelle vesti di coach itinerante. Così si è dedicato all'insegnamento e allo sviluppo dei giovani, prima a Milano con Barbara Rossi e Maurizio Riva, poi ha scelto di tornare nella sua Bari, prendendosi cura dell'Accademia Tennis Bari, magari con lo scopo di ridare slancio racchettaro alla regione di Pennetta, Vinci, Fabbiano e tanti altri. Gli piace lavorare con ragazzi tra i 14 e i 19 anni, quelli sui quali si può incidere di più. Non sappiamo se riuscirà nell'obiettivo, ma chi è allenato da lui deve sentirsi un privilegiato. Schiavi della tecnologia, tanti giovani d'oggi non saprebbero fare nulla senza senza un touchscreen. Al contrario, Gianluca Pozzi aveva fatto tutto con le sue forze.