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ASICS TENNIS ACADEMY

The Coach: Fabio Colangelo

Ex valido professionista, Fabio Colangelo è il direttore tecnico dello Sporting Stampa di Torino. A questa attività affianca quella di coach e commentatore TV. La vocazione per l'insegnamento risale ai tempi da giocatore e si è sublimata con i tanti incarichi raccolti in questi anni. Tra questi, l'ingresso nell'ASICS Tennis Academy.

Intervista di Riccardo Bisti
5 agosto 2023

È più noto oggi rispetto ai tempi da giocatore. Potere del tubo catodico, certo (è tra i più apprezzati commentatori per Eurosport e Sky Sport), ma anche perché le sue qualità da allenatore gli hanno permesso di diventare il direttore tecnico di uno dei circoli più in vista dello Stivale, lo Sporting Stampa di Torino. Ma Fabio Colangelo, classe 1981, nutre una sincera passione per il coaching. Attento, scrupoloso, ha avvertito questa vocazione nel cuore della sua carriera, grazie a un'intuizione di Leonardo Caperchi. La sua capacità di comunicare è pari alla voglia di farlo: grande. Non è un caso che sia entrato nel progetto ASICS Tennis Academy, senza perdere di vista il sogno di creare un professionista dopo averlo preso da ragazzino. “E in Italia ci sono tanti esempi”.


Da giocatore sei stato numero 415 ATP in singolare e 154 in doppio. Cosa ti è mancato per fare un passo in più?

Faccio fatica a rispondere: all'epoca non c'erano la cura e l'attenzione maniacale dedicata oggi ai dettagli tecnici, fisici e mentali. Però valeva un po' per tutti. Io mi sono accorto di questa mancanza un po' tardi, quando ho trascorso due mesi con Leonardo Caperchi (che all'epoca allenava Fabio Fognini e Gianluca Naso): prima ad Arma di Taggia, poi feci con loro una trasferta in Sudamerica. Mi resi conto che in altre realtà si potevano fare le cose in altro modo. Ovviamente mi prendo le mie colpe: potevo rendermi conto prima di certe cose, o magari mettere di più il naso fuori da casa. Amavo viaggiare per tornei, ma per gli allenamenti facevo fatica a considerare una città diversa da Milano. Il periodo con Leonardo mi fece capire che le cose si potevano fare meglio, pur tenendo conto delle possibilità di allora. Il doppio? Avrei potuto e dovuto tenere duro: non mi sono mai dedicato appieno alla specialità, ma soltanto negli ultimi 5-6 mesi di carriera, quando però mi era passata la voglia. Visti i risultati, e visti alcuni giocatori che ci sono adesso tra i primissimi, dedicandomi esclusivamente al doppio per qualche anno mi sarei potuto togliere qualche soddisfazione in più.

Hai sempre pensato di fare il coach oppure avevi sondato percorsi alternativi?
Anche qui devo ringraziare Leonardo Caperchi. Tra noi si era creato un ottimo rapporto e per un periodo aveva bisogno di qualcuno che desse una mano a Gianluca Naso, perché tra lui e Fognini si stava creando una certa differenza in termini di classifica ed obiettivi. Mi affidò Naso per per alcuni tornei Futures in nord Europa: a suo dire potevo fare bene perché sono una persona curiosa e amo ascoltare. Non feci proprio l'allenatore però mi preparavo con lui, giocavamo il doppio insieme, chiedevo al supervisor di essere collocato in orari diversi in modo da potergli dare una mano. Mi piacque molto: quei tornei mi fecero prendere la decisione per il futuro: "Quando smetto, intraprendo il percorso da coach". Dopo quella scintilla non ho vagliato altre possibilità, anche perché ero ancora in attività e dopo quell'esperienza giocai altri 2-3 anni. Dopo il ritiro ho fatto un anno di assestamento come maestro in una scuola tennis, ma appena ho avuto l'opportunità con Alberto Brizzi e Marco Crugnola ho intrapreso questa vita.

«Il doppio? Avrei potuto e dovuto tenere duro. Visti alcuni giocatori che ci sono adesso tra i primissimi, dedicandomi esclusivamente alla specialità per qualche anno mi sarei potuto togliere qualche soddisfazione in più»

Brizzi e Crugnola, proprio come altri tuoi futuri giocatori (Bonadio, Gaio e altri ancora), frequentavano soprattutto i tornei Challenger e ITF. Quanto è redditizio allenare giocatori di quel livello?
Da un punto di vista prettamente economico non si campa. O meglio: si può se l'accordo è di un certo tipo e il giocatore ha determinate possibilità economiche. Ai tempi di Brizzi e Crugnola i prize money non erano ricchi come adesso. Marco si qualificò per l'Australian Open: non ricordo quanto guadagnò, ma se anche avessimo avuto un accordo a percentuale non mi avrebbe garantito chissà qualche svolta. Oggi è diverso: se un giocatore intasca 60.000 euro per il primo turno di uno Slam, con una percentuale approssimativa intorno al 10% sarebbe ben altra cosa. Si tratta di un investimento, nella speranza che il tuo giocatore arrivi nel circuito maggiore: a quel punto diventa redditizio. Ai tempi di Brizzi e Crugnola giochicchiavo ancora nei campionati a squadre, non avevo ancora famiglia e i guadagni erano sufficienti. Quando sono subentrate altre dinamiche, per forza di cose, mi sono dovuto appoggiare a un circolo e lavorare anche per il club. Altrimenti l'impegno non era sostenibile.

La tipologia di accordo con un giocatore da Challenger è diversa rispetto a quella con un top-100?
Va di caso in caso, ma per quanto mi riguarda sì. Al giocatore può convenire sapere in anticipo quante spese avrà tra coach, struttura e allenamenti, in modo da potersi programmare. Inoltre potrebbero avere una certa pressione nel sapere che i loro risultati sono l'unica fonte di guadagno per il coach. Lo capisco benissimo: avevo appena smesso e nei loro confronti non sono stato per nulla pretenzioso. Conosco le spese di un giocatore, ma ci eravamo ripromessi che le cose sarebbero cambiate se fossero arrivati determinati risultati.

Sei sposato e hai due figli: quanto può essere limitante per un coach internazionale? In che misura devi tenerne conto?
Devi fissare delle priorità. Per fortuna mia moglie conosce il tennis, da ragazzina l'ha vissuto come agonista quindi sa come funziona. Quando ci siamo conosciuti facevo già il coach: la sua unica richiesta è stata quella di spostarsi nella sua città natale. In questo modo, quando io viaggiavo lei aveva il supporto logistico della sua famiglia, anche per i bambini. Chiaramente non è bello essere lontani da casa mentre i figli crescono, ma negli ultimi anni ho ridotto le mie settimane in giro per tornei, anche per il subentrare di altri impegni lavorativi: per una serie di circostanze fortuite mi sono trovato a essere il direttore tecnico del circolo per il quale lavoro (lo Sporting Stampa di Torino, ndr). Poi c'è anche l'attività di telecronista, fondamentale per il mio aggiornamento. Nell'ultimo periodo la situazione non è più così pesante, perché trascorro molte più settimane a casa.

«Leonardo Caperchi mi ha dato 2-3 spunti che paradossalmente mi hanno fatto arrabbiare, perché pensai: "Ma non potevano dirmelo prima?". Attualmente, infatti, cerco di non commettere questo errore. Voglio dare quell'aiuto che ho sentito di non aver ricevuto»

Chi è stato il tecnico più importante della tua carriera? E l'insegnamento più prezioso che hai ricevuto?
Difficile rispondere. Leonardo Caperchi non è mai stato un mio coach, anche se in quella famosa trasferta con Fognini e Naso mi ha fatto sentire uno di loro: mi aiutava, mi seguiva, ci allenavamo insieme. Mi ha insegnato tanto e fatto capire tante cose. Le nozioni apprese da lui, in così poco tempo, non ricordo di averle raccolte da altri. Dovendo fare un nome direi lui. Ovviamente c'è un affetto diverso per i maestri che ho avuto da ragazzino, prima di fare il professionista. All'epoca il maestro era una figura ancora più rispettata di oggi. L'insegnamento? Leonardo mi ha dato 2-3 spunti che paradossalmente mi hanno fatto arrabbiare, perché pensai: "Ma non potevano dirmelo prima?". Attualmente, infatti, cerco di non commettere questo errore. Voglio dare quell'aiuto che ho sentito di non aver ricevuto. O magari, semplicemente, erano nozioni che Leonardo aveva e gli altri no. Però ammetto che un po' mi girarono le scatole. Senza fare nomi, vorrei ricordare un insegnamento al contrario: io mi sono sempre affidato al 300% ai miei tecnici, ma se c'è qualcosa che non ti convince è giusto parlarne. Invece c'è stato un momento in cui mi sono affidato totalmente a una decisione che fu presa su di me. Non ne ero convinto, ma pensai che era necessariamente giusta. Mi sarei dovuto confrontare, chiedere spiegazioni ed eventuali conseguenze. Dopo qualche mese mi resi conto che era stato un fallimento: non si poteva tornare indietro, ma avevo perso tempo e motivazione. In sintesi, direi che il confronto è la cosa più importante. Ci vuole fiducia nell'allenatore, ma il dialogo è necessario.

Attualmente chi è il miglior coach al mondo?
Qual è il metro di valutazione? Per me la bravura di un coach sta nel tirare fuori il meglio dal proprio giocatore. Se vedi i risultati, Mouratoglou ha fatto cose eccezionali con Serena Williams e si sta ripetendo con Rune. Poi però pensi al materiale umano... non dico che ci saremmo riusciti tutti, però aiuta. Se penso al lavoro di Simone Vagnozzi con Cecchinato è stato spettacolare. Semifinale a Parigi, tre titoli ATP, numero 16 del mondo... poi Cecchinato non si è più nemmeno avvicinato a quei livelli. Questo non significa che Vagnozzi sia un fenomeno e chi è venuto dopo non sia capace, perché entrano in ballo mille fattori. Ma non c'è dubbio che Simone abbia fatto un gran bel lavoro. Ripensando al passato, quello che fece Riccardo Piatti con Caratti e Furlan fu sensazionale. Per me è persino più importante rispetto a quanto ottenuto con Ljubicic e Raonic, giocatori con grandi mezzi. Ma prendi il canadese: solo con Piatti ha fatto certe cose, poi non è più stato in grado di ripeterle. Citerei anche quanto fatto da Ljubicic con Federer: ha avuto la capacità di convincerlo che certe cose si potevano fare. Per esempio, uscire dalla ragnatela tattica in cui lo aveva intrappolato Nadal.

Qual è la cosa più preziosa che ti dà il ruolo di commentatore TV?
È un modo per aggiornarmi e osservare il gioco con grande attenzione, mischiando il lavoro a qualcosa che mi piace molto. Riesci a cogliere degli aspetti tecnico-tattici che non è sempre facile individuare dopo una giornata trascorsa sul campo e con la famiglia. Io ho la fortuna di poterlo fare con una cuffia in testa, peraltro con il vantaggio di essere una spalla tecnica: posso permettermi di stare in silenzio per 2-3 punti per riflettere e analizzare quello che stanno facendo i giocatori. Ho una certa libertà nel valutare gli aspetti tecnici, e questo mi può aiutare nel lavoro di tutti i giorni. Se mi accordo che quasi tutti fanno la stessa cosa in un certo momento, è molto probabile che sia la cosa giusta. È un po' come quando si andava a scuola, copiando dal più bravo della classe. Se ci accorgiamo che otto dei primi dieci rispondono da molto lontano, probabilmente è la cosa migliore per le esigenze del tennis attuale.

Leonardo Caperchi è stato una figura cruciale nella scelta di Fabio Colangelo di intraprendere l'attività di insegnamento

«Mi piacerebbe lavorare con Caroline Garcia: ha un tennis talmente offensivo da sembrare esagerato. Vorrei capire questa evoluzione, rendermi conto perché ha estremizzato così tanto ed eventualmente limare questa tendenza»

Tra i giocatori attuali c'è qualcuno che ti piacerebbe allenare?
Non vorrei dare risposte scontate. Quando vedo Alcaraz e Juan Carlos Ferrero che sorride in tribuna, mi metto nei suoi panni. Deve essere spettacolare allenare un giocatore così forte, anche se gli riconosco la bravura di averci messo la faccia quando lui giocava i Challenger. Non mandava i suoi collaboratori, c'era sempre lui. Tra le donne mi piacerebbe lavorare con Caroline Garcia: ha un tennis talmente offensivo da sembrare esagerato. Vorrei capire questa evoluzione, rendermi conto perché ha estremizzato così tanto ed eventualmente limare questa tendenza. Più in generale, ho la curiosità di lavorare con una donna: a parte una breve collaborazione con Jessica Pieri, ho allenato quasi soltanto uomini. Il tennis femminile è molto diverso, e mi affascinerebbe l'idea di provare qualcosa di diverso. Tra gli uomini mi ha incuriosito Ben Shelton.

C'è una qualità che vorresti avere?
Ne vorrei avere tante, perché è un mestiere molto complicato. Mi piacerebbe farmi capire meglio da chi alleno. Credo di essere chiaro nella comunicazione, ma a volte mi capita di dare qualcosa per scontato. Meglio dare un'informazione in più per essere certi che il messaggio arrivi nel modo giusto.

Metteresti la firma per una carriera come quella di Gipo Arbino? Ha fatto a lungo il maestro di circolo, poi a 55 anni ha trovato il gioiello e cambiato completamente vita.
È il mio sogno, come quello di molti colleghi. Mi piacerebbe prendere un ragazzino dall'agonistica della scuola tennis e portarlo a certi risultati: quando lo vedo allenarsi con Sonego allo Sporting sono davvero contento per lui perché so quanto gli piace, ed è il coronamento di un percorso lunghissimo, iniziato da maestro e poi trasformato in allenatore. Inoltre Gipo ha investito su un giocatore sul quale non c'erano grandi aspettative. In Italia ci sono tante situazioni di questo tipo, ed è bellissimo. Sarebbe fantastico fare qualcosa del genere: se si dovesse creare l'occasione.. perché no? Tenendo conto delle esigenze familiari, sarebbe un sogno.

Fabio Colangelo in compagnia di Gipo Arbino e Raffaella Reggi sui campi dello Sporting Stampa di Torino

«ASICS? Mi ha fatto piacere che fossero interessati a Fabio Colangelo: nel club dove lavoro gli sponsor tecnici sono altri, e ASICS ne era a conoscenza. Per loro non era un problema: sono interessati al contributo che posso dare»

La carriera di allenatore dà più soddisfazioni o frustrazioni?
Dipende. Le soddisfazioni sono tante: quando vedi che il lavoro si sviluppa nel modo giusto è bellissimo. Mi capita spesso di scherzare con Riccardo Sinicropi: avevamo iniziato un bel percorso, che purtroppo si è interrotto. Però capita ancora di domandarci come sarebbe andata a finire se avessimo continuato, perché vedevo quello che stava diventando prima ancora che lui se ne rendesse conto. Quel tipo di risposta, così come un bel miglioramento tecnico, dà grande soddisfazione. Quando Pietro Rondoni arrivò da me c'era un colpo che gli creava grosse difficoltà. Vederlo esprimersi con quel colpo come non aveva mai fatto è stata una grande soddisfazione. L'altra faccia della medaglia? Ho avuto la fortuna di trovare ragazzi che mi ascoltassero, ma a volte il non raggiungere gli obiettivi mi ha portato a mettermi in discussione. Mi chiedo sempre perché, magari, non li ho convinti a fare le cose giuste.

Danilo Pizzorno viaggia 24 settimane all'anno, ma dice che non riesce mai a staccare. "Il coach è un lavoro che ti prende 365 giorni all'anno". Confermi?
Rispetto a lui sono meno impegnato dal punto di vista logistico. Per questo riesco a staccare, per forza di cose. Però lo capisco: quando lo facevo a tempo pieno era così. Il lavoro non si limita al campo o alla preparazione atletica, ma ti metti continuamente in discussione oppure studi determinate cose: preparazione, avversari, eccetera. Tuttavia penso che un minimo di stacco sia necessario, perchè altrimenti si rischia la saturazione. Arrivi a un punto in cui non ce la fai più.

Cosa ti ha convinto a entrare nell'ASICS Academy?
In primis, la qualità del prodotto. Per anni ho avuto ASICS quando giocavo. Quando ho cambiato sponsor tecnico e l'altro sponsor non aveva a disposizione le calzature, andavo sempre su ASICS perché ritengo che siano le migliori. Poi ho trovato molta serietà nel progetto. Prima della proposta sono andato alla convention di Marbella in cui c'era Djokovic e quello che ho visto mi è piaciuto molto. Non nego che abbia influito che la proposta sia arrivata da una persona che stimo molto come Charly Romiti. E poi mi ha fatto piacere che loro fossero interessati a Fabio Colangelo: nel club dove lavoro gli sponsor tecnici sono altri, e ASICS ne era a conoscenza. Per loro non era un problema: sono interessati al contributo che posso dare, magari mettendo a disposizione la mia esperienza come tester di prodotti. Quando me lo chiesero posi subito la questione, ma mi fecero capire che erano interessati a Fabio Colangelo. Per me è stato molto importante. Non c'era alcun secondo fine, l'interesse era per il contributo che avrei potuto dare io.