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ASICS TENNIS ACADEMY

The Coach: Alessandro Petrone

Ancora giovanissimo, Alessandro Petrone è tra i tecnici più in vista grazie ai risultati ottenuti con Matteo Arnaldi. Chiusa l'attività da giocatore, si è immerso nello studio dei grandi coach con l'idea di trovare un ragazzo su cui investire al 100%. L'impegno con Arnaldi non gli ha impedito di aderire all'ASICS Tennis Academy.

Intervista di Riccardo Bisti
2 ottobre 2023

Il tennis può dare soddisfazione in tanti modi. Tutti sognano di diventare un campione, ma c'è chi sfrutta gli anni da tennista per sviluppare altre qualità, tra cui quella di essere un buon coach. Non c'è stato un momento preciso in cui Alessandro Petrone ha capito che poteva essere il suo futuro, piuttosto ha cercato la sua strada fino a rendersi conto di voler prendere un giovane, un diamante grezzo, e provare a portarlo il più in alto possibile. Aveva appena 30 anni quando ha iniziato il suo progetto con Matteo Arnaldi: è bastato poco per lasciare le sabbie mobili dei tornei minori ed entrare nella narrativa mainstream, sublimata dalla visibilità garantita dalla Coppa Davis (con tanto di ospitata di Arnaldi al TG1). Membro entusiasta dell'ASICS Tennis Academy, il milanese punta a fare il massimo con il suo allievo, e in futuro vorrebbe replicare questo progetto con una struttura che abbia una parola d'ordine: qualità.

Sei stato un buon professionista, peraltro con alcune vittorie di prestigio (Bublik, Przysiezny), ma non hai compiuto il salto di qualità nel grande tennis. Potevi fare qualcosa in più?
Sicuramente. Il mio percorso agonistico è stato abbastanza travagliato: ho smesso un paio di volte, un po' per ragioni personali, un po' perché faticavo a trovare la base giusta per allenarmi, sia come sede che come tecnici. Quando ho ottenuto il best ranking, poco dopo hanno cambiato il sistema di classifica con l'ITF Transition Tour: frequentavo i Challener, all'improvviso mi sono trovato nelle qualificazioni degli ITF da 15.000 dollari. Avevo 29 anni e quel passaggio mi tolse un po' di motivazione, poi il Covid mi ha portato alla decisione definitiva: addio tennis giocato e ripresa del percorso da allenatore.

Il tuo braccio dove ti avrebbe permesso di arrivare?
Leggermente più in alto. Non troppo, perché ero consapevole dei miei limiti tecnici e (soprattutto) mentali. Va bene così: le soddisfazioni che non sono riuscito a togliermi da giocatore stanno arrivando da coach. Le cose potevano andare in modo diverso, ma sono ugualmente contento di quello che ho avuto.

Se non ci fosse stata la sospensione del tour a causa del Covid saresti andato avanti?
Sì, ma non so per quanto. Già a fine 2019 avevo avuto la mezza idea di smettere. Non me la sono sentita e scelsi di provare un altro anno, ma se non ci fosse stata la sospensione forzata credo che avrei smesso 6-7 mesi dopo.

Si dice che i giocatori di livello ITF restino a lungo nel circuito perché, in fondo, non è una brutta vita. Gare a squadre e tornei Open garantiscono discreti guadagni e così si ritarda l'ingresso nel mondo del lavoro. Funziona davvero così?
Sì, è vero. Tuttavia, per chi rimane impantanato nei tornei ITF (come è capitato a me), la vera discriminante è quella economica. Partendo dal presupposto che l'attività in sè ti porta a chiudere in passivo, se puoi permettertelo e riesci a sostenere le spese, vai comunque avanti. Ma succede anche nei Challenger, con giocatori dal passato importante (penso a Verdasco, Robredo e altri) che si trascinano nei tornei minori. Nel loro caso non ci sono spinte economiche, ma quando hai fatto il professionista per tutta la vita è difficile staccare. Bisogna valutare di caso in caso.

Quando giocavi, prestavi attenzione all'attrezzatura?
Parecchia. Ero abbastanza fissato sui dettagli: racchette, pesi, corde, doveva essere tutto perfetto. L'ho capito un po' tardi, quando ho ripreso l'attività full intorno ai 25-26 anni. Però ho scoperto di essere un perfezionista.

I giocatori del tuo livello erano come te?
Direi di no, c'era un po' d'attenzione in meno. Diciamo che io ero sopra la media.

«Per chi rimane impantanato nei tornei ITF, la vera discriminante è quella economica. Partendo dal presupposto che l'attività in sè ti porta a chiudere in passivo, se puoi permettertelo e riesci a sostenere le spese, vai comunque avanti»

Coach si nasce o si diventa?
Entrambe le cose. C'è chi è più portato, ma la cosa più importante è la passione. Se si fa fatica ad allenarsi e stare in campo, curare l'integrità fisica e mentale, andare in giro e stare settimane fuori casa, è ovvio che si debbano prendere altre strade. Nel tennis, per esempio, fare il maestro di circolo. Per fare il coach itinerante, rinunciando a tante comodità, sono necessarie passione, voglia, energia e tempo da investire.

Quando hai avuto la vocazione, se vogliamo chiamarla così?
Non parlerei di vocazione. È stato un percorso abbastanza naturale: quando ho smesso la prima volta non avevo molta voglia di andare in giro, allora ho iniziato come maestro di circolo. Non mi è piaciuto per niente, allora ho provato a fare l'allenatore di agonisti in un'accademia... e non mi è piaciuto nemmeo quello, perché non amavo stare troppo alle dipendenze di altri. Per carità, devi imparare il mestiere quindi è stato un periodo utile. Tuttavia, non mi entusiasmava avere a che fare con tanti ragazzi con diverse personalità. Non riuscivo a focalizzarmi, a svolgere bene il lavoro. Quando ho smesso, dunque, ho deciso che avrei provato a fare il coach, ma al seguito di uno, massimo due giocatori. L'idea era concentrare tempo, forze ed energie su un singolo giocatore per portarlo al massimo del suo potenziale.

Sei di Milano e hai lavorato per qualche anno all'ASPRIA Harbour Club. Come mai la scelta di spostarti a San Remo?
Presi questa decisione a fine 2018, quando ero ancora in attività. A Milano non avevo trovato una realtà adatta alle mie esigenze, così ho pensato di andare laddove avevo tanti amici, tra cui Matteo Civarolo, direttore del circolo. Andai con Pietro Rondoni (che oggi segue Giovanni Fonio e Julian Ocleppo) e Gianluca Naso, all'epoca nostro allenatore, e mi trovai benissimo. Chiusa l'esperienza da giocatore sono rimasto lì come tecnico, poi nel marzo 2022 ho scelto di riportare la mia base a Milano, pur continuando a seguire privatamente Matteo Arnaldi.

Essendo ancora molto giovane (Petrone è classe 1990, ndr), non hai molta esperienza. La scelta di fare il coach è stata - per tua stessa ammissione - un investimento su te stesso: cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada? Passione, gloria, prospettive di guadagno?
Di sicuro non il denaro, anche perché è una variabile troppo grande. Quando ho iniziato con Arnaldi aveva 20 anni ed era numero 900 ATP, non certo un giocatore affermato. Ma era quello che mi piaceva: prendere un giovane, un diamante grezzo e provare a plasmarlo per arrivare al livello più alto possibile. Ammetto che non mi sarei mai aspettato di arrivare a un livello così alto in così breve tempo, ma quando investi tempo ed energie e arrivano i risultati è una soddisfazione immensa. Ho provato a compensare la mancanza d'esperienza con lo studio, facendo tanti corsi e approfittando del periodo del Covid. Ho studiato allenatori di alto livello, cercando di scoprire più segreti possibili. Ed è quello che continuo a fare, potendoli frequentare da vicino nei grandi tornei.

«Ho provato a compensare la mancanza d'esperienza con lo studio, facendo tanti corsi e approfittando del periodo del Covid. Ho studiato allenatori di alto livello, cercando di scoprire più segreti possibili. Ed è quello che continuo a fare, potendoli frequentare da vicino nei grandi tornei»

Ricordi la prima volta che hai visto Matteo Arnaldi? Cosa ti ha spinto a investire così tanto proprio su di lui?
Lo avevo visto a San Remo quando ero ancora in attività. Essendo del posto, gli capitava di passare al circolo nei periodi di festa e allenarsi con noi. Mi era piaciuto, ma senza conoscerlo non mi aveva particolarmente colpito. Poi l'ho rivisto a un torneo in Turchia a inizio 2021: facendoci quattro chiacchiere ho capito che vive di tennis, è la sua unica priorità. Cercavo qualcuno che volesse investire seriamente: non è facile trovare un ragazzo che voglia investire così tanto su se stesso, tralasciando aspetti che da giovane sono molto importanti. Passione, professionalità e dedizione quotidiana mi hanno spinto a investire su di lui.

Più quello che le qualità tecniche, insomma.
Esatto. Anche perché le qualità mentali e il giusto atteggiamento facilitano il lavoro del coach. Un ragazzo può essere molto bravo tecnicamente, ma se la qualità non è supportata dall'integrità fisica è dura. Lui mette grande cura nei particolari e non credo sia un caso che fino a oggi non abbia avuto particolari problemi fisici. Grazie a queste sue doti possiamo allenarci con continuità e giocare tanti tornei.

Forse è un po' presto per dirlo, ma... quale può essere il suo obiettivo di carriera?
Non abbiamo mai guardato troppo alla classifica, bensì al livello e al miglioramento. I risultati vengono di conseguenza, ma sono variabili e dipendono da tante cose. Cerchiamo di monitorare la sua crescita personale e professionale, cercando di fare più esperienze possibili. Quest'anno la priorità era fare esperienza nel circuito ATP e fare del nostro meglio. Il 2023 è stato un anno di prime volte: il fatto che stia bruciando le tappe è un ottimo segnale.

Solitamente si fa questa domanda ai giocatori, adesso lo chiedo a un coach: quanto cambia la qualità della vita tra frequentare i Challenger e i tornei del circuito maggiore?
È diverso. I tornei sono organizzati molto meglio, dalla trasportation al cibo, senza considerare la maggiore qualità degli hotel. Nel complesso, un torneo ATP ha uno staff molto più numeroso che prova a metterti nelle migliori condizioni possibili. Non dimenticherei le città: i tornei ATP si giocano in bei posti, il che favorisce la presenza di amici e familiari. Se vai a giocare un Challenger in Colombia o nel nord della Francia, nel freddo di febbraio, non viene nessuno. La bellezza delle città fa la differenza.

Il tennis ha un'anomalia: il giocatore è datore di lavoro del coach. Cosa deve fare un allenatore per tenersi stretto il tennista? Come deve comportarsi, quali qualità deve avere?
Io cerco di creare un rapporto umano. Ovviamente il legame è professionale, ma per forza di cose questo lavoro ti porta a passare molto tempo insieme. E come essere fidanzati, perché passi insieme 24 ore al giorno, 7 giorni su 7, per lunghi periodi. E anche quando non siamo insieme ci sentiamo tutti i giorni. Il rapporto va al di là di quello lavorativo, dunque è necessario avere feeling, dirsi le cose come stanno, non nascondere i problemi. Sono elementi fondamentali per far funzionare il rapporto. C'è il caso degli argentini: a livello culturale sono abituati a cambiare spesso allenatore perché trascorrono tanto tempo fuori casa e sono amici tra loro. Per il resto, quando vedi un giocatore cambiare spesso guida tecnica significa che a livello umano non riesce a instaurare il giusto rapporto con il suo allenatore.

Alessandro Petrone ricorda il giorno esatto in cui ha iniziato a lavorare con Matteo Arnaldi: era il 18 maggio 2021

«Il rapporto con il giocatore va al di là dell'aspetto lavorativo, dunque è necessario avere feeling, dirsi le cose come stanno, non nascondere i problemi. Sono elementi fondamentali per far funzionare il rapporto.»

Torniamo ad Arnaldi: è più facile allenarlo perché è motivato e professionale, o è difficile perché ha grandi ambizioni ed è molto esigente?
È più facile perché è un bel vantaggio avere un giocatore sempre disponibile, a cui non devi ricordare ogni due minuti quello che deve fare. Lui è molto indipendente. Nell'allenamento garantisce attenzione, energia e intensità. Poi è vero che ha grandi aspettative, ma in questo momento le sta rispettando. Prima che iniziassimo a lavorare insieme, invece, le aspettative non erano soddisfatte e questo gli aveva creato un grosso malessere interiore. Bisogna saper trovare il giusto equilibrio e bilanciare le cose.

Qual è la tua massima aspirazione? Ti vedi coach itinerante o, magari, creare una tua accademia?
La seconda. Non mi vedo come traveller coach per tutta la vita. È uno step della mia carriera e spero che con Matteo vada avanti il più a lungo possibile perché per me è un progetto, qualcosa su cui ho investito tanto. Sta andando bene e sto facendo esperienza, conoscendo tante persone. Uno dei miei obiettivi è creare un brand e proporre una realtà in cui possa riproporre con altri ragazzi quello che ho fatto con Matteo. Vedo che in giro c'è tanta quantità ma poca qualità. Essendo un perfezionista mi piacerebbe avere una realtà in cui esprimere la mia filosofia. Ovviamente non da solo: vorrei creare un team di lavoro, un gruppo di amici con cui realizzare il tutto.

La immagini a Milano o altrove?
Mi piacerebbe almeno iniziare da Milano. È la mia città e credo che in Italia sia uno dei posti migliori. Anche a San Remo mi sono trovato bene, perché le condizioni climatiche sono favorevoli. Tuttavia immagino di partire da Milano, anche perché non vedo molte realtà di questo tipo. Di recente sono diventato consulente tecnico al Quanta Village con l'accademia MXP: è un progetto validissimo che ho scelto di sposare perché, al di là dell'amicizia con Marco Brigo e Fabio Chiappini, mi piacciono le loro idee. Inoltre hanno un'ottima struttura e un grande gruppo di ragazzi. Può essere una base di partenza.

Petrone ha lavorato a stretto contatto con il team di Coppa Davis durante la settimana di Bologna

«ASICS? Mi ha fatto piacere che fossero interessati a Fabio Colangelo: nel club dove lavoro gli sponsor tecnici sono altri, e ASICS ne era a conoscenza. Per loro non era un problema: sono interessati al contributo che posso dare»

Vedi meglio i coach "di nome" o ti piacciono i casi tipo Simone Tartarini e Gipo Arbino, che prendono un ragazzo a 8-10 anni di età e lo accompagnano per tutta la carriera?
Bisogna valutare caso per caso. Mi piace l'idea di prendere un giovanissimo, ma nei casi che hai citato il percorso è molto lungo, con la possibilità che si creino legami che vadano troppo al di là di quello professionale. Per questo, non so quanto possano essere proficui sul lungo periodo. Per questo, l'idea di apportare delle figure nuove (come ha fatto Sinner) può essere un'idea vincente. Io penso che i giocatori non debbano mai smettere di investire, ovviamente se è possibile economicamente. È ovvio che se sei 200-300-400 al mondo non puoi permetterti chissà quale team, ma la mia idea è chiara. Infatti a fine stagione, con Matteo, proveremo a inserire dei collaboratori, delle figure che possano aiutarci a migliorare e rendere sostenibile il progetto sul lungo termine.

Come nasce la tua partnership con l'ASICS Tennis Academy?
Tramite Charly Romiti, principale promotore dell'iniziativa. Lo conosco da quando avevo 8-9 anni: è più grande di me, ma ci allenavamo insieme al Tennis Milano. Ho continuato a sentirlo quando lavorava in Babolat, dopodiché mi ha cercato lui, proponendomi l'idea. Mi piace la possibilità di creare una sorta di team composto da figure professionali legate da un brand, a maggior ragione se si tratta di ASICS. Non a caso ho sempre indossato calzature ASICS, le migliori in circolazione. È bello avere un network e condividere un percorso con altri colleghi.

Qual è la cosa che ti sta piacendo di più del progetto?
La qualità del materiale e delle forniture è imprescindibile. Ma mi piacciono molto le iniziative: con Charly ci sentiamo sempre, poi agli Slam c'è sempre un punto di riferimento ASICS. Hanno fatto una bella iniziativa a Wimbledon, denominata ASICS House. Molto bella, frequentata da gente sempre disponibile... mi è piaciuta molto.