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CASO DJOKOVIC

Quel labile confine tra inferno e paradiso

Novak Djokovic si trova a meno di 3 km dalla Rod Laver Arena, in un ex hotel requisito dal governo australiano. Oggi è un centro detentivo per rifugiati e richiedenti asilo politico. Come l'iraniano Mehdi Ali, che oggi compie 24 anni e ne ha trascorsi 9 da detenuto senza aver commesso alcun reato.

Riccardo Bisti
7 gennaio 2022

Chiuso in una stanza fatiscente, senza oggetti personali e con qualche insetto a fargli compagnia, Novak Djokovic starà pensando a quanto possano essere vicini inferno e paradiso. Secondo Google Maps, appena 2 chilometri e mezzo. È la distanza in linea d'aria tra la Rod Laver Arena e il The Park Hotel Melbourne, laddove è detenuto (sì, detenuto) perché il governo australiano non ha ritenuto valida la documentazione presentata per entrare nel Paese, in assenza di vaccinazione. A qualche isolato di distanza c'è uno dei luoghi più importanti della sua carriera, laddove ha giocato il suo primo match in uno Slam (2005). Laddove ha vinto il suo primo Major (2008). Laddove ha giocato la finale più lunga di sempre (2012). E dove vorrebbe esultare ancora una volta, il 30 gennaio, per essere diventato il secondo tennista di sempre a entrare in doppia cifra in un torneo del Grande Slam. Invece il suo presente – almeno fino a lunedì – è sprangato in una struttura che un tempo si chiamava Rydges on Swanston ed era un rispettabilissimo quattro stelle, con oltre cento stanze, suite e comodità tipiche per un hotel di quel livello. La doppia bibbia delle recensioni (Tripadvisor + Google) gli aveva dato buone valutazioni, sia per la qualità complessiva che per la buona posizione, nei pressi del Central Business District e non troppo distante dal centro di Melbourne. Poi è arrivato il COVID, comune denominatore per le disgrazie mondiali degli ultimi due anni. E il Rydges fu scelto come luogo di quarantena per parcheggiare chi arrivava dall'estero.

Poche settimane dopo, fu individuato come luogo-focolaio del 90% dei contagi della seconda ondata. Da allora è stato chiuso, venduto e rinominato, salvo poi essere requisito dal governo ed essere riaperto nel dicembre 2020 con il nuovo nome. Abbruttito, ammuffito, hanno dedicato due piani come luogo di detenzione per rifugiati e richiedenti asilo politico, soprattutto quelli provenienti da Nauru e dalla Papua Nuova Guinea. Quando Anthony Kelly, il giudice che lunedì sarà chiamato a decidere sul destino di Djokovic, ha chiesto se il serbo avrebbe avuto accesso a un campo da tennis nella struttura, gli hanno risposto con un secco “no”. Motivo? Dallo scorso 23 dicembre, giorno dello scoppio di un incendio, i detenuti (come si fa a chiamarli ospiti?) non possono utilizzare la palestra, accedere alla terrazza per fumatori (che sarebbe l'unico accesso all'aria aperta) e hanno le finestre bullonate. “Il cibo fa schifo” ha detto (con termini meno gentili...) Mohammad Joy Miah, un bengalese che fu tra i contagiati del secondo focolaio COVID originato dall'hotel, lo scorso ottobre. Giusto una decina di giorni fa, erano trapelate alcune immagini in cui si vedevano i pasti dei detenuti intrisi di vermi e muffa. Anche le guardie riconobbero che non erano commestibili. “Quando sono stato isolato sono rimasto per due settimane con gli stessi vestiti, senza alcun ricambio – ha raccontato Miah a The Age – ci sono volute sei ore per ricevere un medicinale e non mi hanno fatto arrivare lo zenzero per il mal di gola”.

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«Tutti chiedono di Novak Djokovic, ma nessuno chiede di noi, rinchiusi da anni in posti del genere. Non ho mai visto così tante telecamere. Spero che Novak venga a conoscenza della nostra situazione e ne parli» 
Mehdi Ali, rifiugiato da 9 anni

I racconti di alcuni detenuti del Park Hotel durante il focolaio COVID dello scorso ottobre

Sulla base di questi racconti, la Commissione per i Diritti Umani ha chiesto che questo hotel non venisse più utilizzato per detenzioni prolungate. Il Ministero degli Affari Esteri ha replicato, dicendo che è comunque garantito l'accesso a oggetti personali, vestiti, toilette, telefoni e dispositivi elettronici. Qualcuno ha scritto che il lato positivo del Djokovic Gate è la possibilità di portare alla ribalta le pietose condizioni dei rifugiati, e più in generale le severe politiche di immigrazione australiane, al di là dei docu-reality di successo. È quello che si augura Mehdi Ali, un ragazzo iraniano che oggi compie 24 anni. Ne ha trascorsi nove da immigrato-rifugiato-detenuto. “Tutti chiedono di Novak Djokovic, ma nessuno chiede di noi, rinchiusi da anni in posti del genere – ha detto al Guardian – non ho mai visto così tante telecamere. Spero che Novak venga a conoscenza della nostra situazione e ne parli”. Mehdi aveva 15 anni quando è fuggito dall'Iran. La sua colpa? Fare parte della minoranza araba Ahwazi. La sua famiglia lo ha esortato a fuggire, raccogliendo le risorse per un viaggio che avrebbe dovuto garantirgli un futuro migliore.

Lui è arrivato in Australia in barca, evocando immagini tristemente conosciute anche in Italia. Secondo le convenzioni internazionali, l'Australia è tenuta a proteggerlo. Tuttavia, Mehdi ha pagato questo diritto con la libertà. Nonostante non sia accusato di nulla e non abbia commesso alcun crimine, è bloccato da nove anni. Prima a Nauru, poi a Brisbane, adesso nel famigerato Park Hotel. I suoi compagni di viaggio hanno avuto alterne fortune: c'è chi ha trovato l'agognata libertà, ma anche chi si è bruciato vivo per la disperazione. Lui sta nel mezzo, in un limbo grigio e maleodorante. “Sto perdendo la mia vita, la mia gioventù. Grazie a Instagram posso vedere i miei coetanei che escono e si divertono. Io invece sono stato picchiato e incarcerato senza motivo”. In realtà, avrebbero approvato un suo reinsediamento negli Stati Uniti in virtù di un accordo bilaterale con l'Australia. Gli americani si prendono i rifugiati che si trovano Down Under, mentre Canberra accoglie i centroamericani sparsi per gli USA per lo stesso motivo.

Fino a qualche anno fa, l'ex Rydges era un hotel di buon livello, dotato di ogni comfort

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Il deputato Adam Bandt denuncia le disumane condizioni di vita negli hotel per rifugiati, compreso quello in cui staziona Novak Djokovic

Ad oggi, il programma ha coinvolto un migliaio di persone, ma il processo è molto lento. “Non ci faccio grande affidamento – sospira Mehdi – non credo che accadrà presto. Anzi, non ho alcuna garanzia che prima o poi accada”. Il governo sostiene che nessun rifugiato sarà reinsediato in Australia, ma Mehdi sostiene che non sia vero. “Conosco decine di persone che sono state collocate in Australia”. Uno dei motivi è il rifiuto di accettare la disponibilità della Nuova Zelanda di farsi carico di alcuni immigrati. Hanno deciso così perché sarebbe un fattore di attrazione che darebbe ulteriore linfa all'immigrazione. Fosse vero, un gesto di profondo egoismo: negare diritti umani per avere meno fastidi alle frontiere marittime. Giusto qualche ora fa abbiamo scritto che avremmo fatto a meno di raccontare la pietosa faccenda di Djokovic.

Al contrario, pur essendo un magazine tennistico, riteniamo importante raccontare le disperate condizioni di vita dei rifugiati del Park Hotel di Melbourne, ponendo l'accento su una questione – l'immigrazione in Australia – totalmente sconosciuta ai media europei, almeno fino a oggi. Al di là delle discutibili convinzioni di Djokovic (non solo legate al vaccino, ma ad alcune teorie strampalate come gli abbracci agli alberi e alla purificazione dell'acqua, puntualmente sottolineate da diversi media mainstream per metterlo in cattiva luce), in tanti anni di carriera ha dimostrato una generosità vera, fuori dal comune. Non è questa la sede per ricordare i suoi tanti gesti benefici: un po' perché non ne ha bisogno, un po' perché non li ha mai fatti cercando pubblicità. Ma sono ben noti, e per questo crediamo che non dimenticherà quanto ha vissuto e cosa ha appreso in queste ore di ordinaria follia, in cui il Ministro dell'Interno Karen Andrews ha detto: “Djokovic non è prigioniero: può lasciare il Paese quando vuole”. Lui sì, gli uomini che si trovano accanto a lui no.