The Club: Bola Padel Roma
L'OPINIONE

ATP, covid e ribelli: i retroscena di una crisi

Sul caso di Pospisil che, l’altra notte, ha accusato il capo dell’Atp Andrea Gaudenzi di avergli «urlato contro per un’ora e mezza» per il solo fatto di aver «provato a unire i giocatori» (sì, ma in un’associazione di categoria in conflitto con quella attuale) ci sono alcune considerazioni da fare.

Federico Ferrero
26 marzo 2021

Il tennis sta vivendo un periodo di considerevole affanno. Come tutti, come tutto. Il calendario ha il fiato corto. Manca poco più di un mese e non si sa granché del torneo di Roma. Si vedrà qualcuno sugli spalti, o il sole potrà liberamente scaldare i seggiolini? Chissà. E Parigi? Quando ci sarà una copertura vaccinale sufficiente per permettere manifestazioni a stretto contatto? Quali Paesi saranno più o meno restrittivi nel concedere accesso ai tifosi negli stadi? E nel frattempo, chi pagherà i danni emergenti e il lucro cessante? La domanda non è estetica: le biglietterie, nel tennis, rappresentano un 40-50% degli introiti. I tornei sono presi per il collo dal covid da un anno e, salvo i quattro Slam, i montepremi si afflosciano come margheritine strappate dal campo; in più – c’era da aspettarselo - fioccano le rinunce dei big.

C’è chi non gioca perché non ha bisogno di guadagnare (e sono pochissimi, in termini assoluti, anche se fanno clamore perché il grande pubblico conosce solo loro), non si scomoda per un compenso falcidiato o non vuole sottoporre la famiglia a bolle sanitarie necessarie, ma di stampo militare. Tutti gli altri, volenti o nolenti, giocano al gioco che oggi è permesso fare. Che non è granché: un matchpoint col rumore del tosaerba a cento metri di distanza, qualche colpo di tosse qua e là e due applausi in croce, o manco quelli, fa sembrare il tennis professionistico qualcos’altro, per chi lo guarda e pure per chi lo gioca. Qualcosa di triste e disinnescato. Che gusto c’è, anche se tutto sommato a tennis si vede giocare, a seguire tutti match disputati sottovuoto, magari con battimani sintetici e sagome cartonate in tribuna?

PRIMA

Flushing Meadows, agosto 2020: la storica foto che simboleggia la nascita della PTPA (Professional Tennis Players Association)

Detto ciò, non è facile giudicare senza camminare con le scarpe degli altri. I giocatori hanno le loro ragioni, i tornei le loro, chi compra il prodotto (le televisioni) porta altri interessi ancora. Quello che è successo l’altra notte, però, con Vasek Pospisil che ha apostrofato in malo modo Andrea Gaudenzi nel bel mezzo di una partita – pare il luogo meno indicato per una protesta sindacale, in effetti – è la spia di un malessere profondo. E non solo personale. Nel corso di questo disastrato torneo di Miami, c’è stato un altro meeting tra i giocatori e la loro associazione. Si è parlato di temi caldi: i montepremi, la bolla, il ranking modificato per venire incontro alle cancellazioni dei tornei causa pandemia (che non piace a chi vorrebbe risalire la classifica). Tra i tennisti serpeggiava pure l’idea di boicottarlo, il torneo, per protestare contro la decurtazione del prizemoney: perdere il 60% della paga, in un momento come questo, è un danno mica dappoco, in un contesto di date cancellate e futuro impalpabile. Solo che qualcuno doveva fare il primo passo, e i volontari latitavano. Pospisil, in assenza di Djokovic, era il rappresentante (non dichiarato, ma lo sanno tutti) della PTPA, l’associazione “pura” (nel senso che è al 100% partecipata da giocatori, a differenza dell’ATP). E il suo atteggiamento era estremamente critico nei confronti del management guidato dall’ex giocatore italiano. Non dev’essere difficile, da un certo punto di vista, ottenere consenso, anche solo morale: sono in tanti a vivere con esasperazione questi mesi.

Gaudenzi, però, non è stato lì a farsele cantare, anzi: lo ha incalzato, gli ha chiesto – così risulta – se avesse letto le 90 pagine del programma che l’ATP ha distribuito mesi fa ai giocatori, in cui si parla di riforme per il 2022, pensate a vantaggio dei giocatori. A quanto pare, Pospisil gli ha risposto di non averlo letto, così come di non aver notato l’aggiornamento settimanale che l’ATP spedisce ai giocatori, nel quale era contenuta la risposta a una delle sue numerose recriminazioni. E il suo interlocutore ha avuto gioco facile nel farlo passare per un demagogo improvvisato. Ora: che la convivenza tra tornei e professionisti, su cui si fonda l’ATP da più di trent’anni, abbia creato malumori crescenti, è innegabile. Forse non è più un sodalizio ideale, pur essendo nato sulla scorta delle stesse lamentele dei tennisti di oggi: la fetta della torta riservata agli atleti. Tanti giocatori non straricchi e strafamosi (che poi sono la maggioranza assoluta dei 128 partecipanti a uno Slam ed è questo il più grande limite genetico del tennis, per essere uno sport planetario) non si sentono tutelati e rappresentati adeguatamente.

Se Djokovic e un buon numero di colleghi hanno deciso di concepire una mossa forte e bellicosa come fondare un’associazione non riconosciuta dall’ATP, in aperto spirito di concorrenza (perché è e sarà così, per forza, a dispetto delle sincere o artefatte dichiarazioni di intenti che parlano di collaborazione e non di guerra) non è stato per capriccio. Certo: per essere veri sindacalisti, bisogna essere preparati. Se si vuole dare voce al malcontento, bisogna conoscere i progetti di Gaudenzi e dell’ATP a menadito e, semmai, contrastarli nel merito. Altrimenti si diventa tribuni ideologizzati. Vero è che, a Gaudenzi, è capitato ciò che, in grande, è successo al ministro della salute italiano, Speranza: pronti, via, covid. Nel caso dell’ex giocatore, a dirla tutta, la dirigenza era iniziata sotto la buona stella degli incendi in Australia. È del tutto comprensibile che sia sotto pressione, e pesantemente. Così come è plausibile che qualcuno lo individui come bersaglio univoco dei propri mal di pancia. Anche quelli che non dipendono da lui. Per contro, lo stress dirigenziale è ottimamente retribuito: quando si aspira a cariche alte, le spalle devono essere proporzionalmente ampie. Anche per resistere al più improbabile degli imprevisti, come una pandemia, e accogliere critiche, legittime e non, e pure quelle in malafede, se arrivano.

Negli anni '90, Andrea Gaudenzi fu portavoce di una battaglia affinché gli azzurri di Coppa Davis intascassero una fetta maggiore dei premi

Pur non avendo una conoscenza così approfondita da permettermi giudizi personali sono piuttosto sicuro che, a una parte dei lavoratori del tennis, non piaccia il modo di fare di Gaudenzi. Cui è difficile non riconoscere intelligenza, cultura manageriale, intraprendenza. Ma che non eccelle in empatia. E però l’uomo è un animale complesso e il tennista professionista non fa eccezione, se non per il fatto che ha un tempo utile (per giocare e guadagnare) molto più limitato, rispetto ad altri professionisti non dello sport. Da ex giocatore, Gaudenzi lamenta che oggi non ci sia più il senso del limite tra la critica e la rivoluzione, e che ognuno pensi esclusivamente al tornaconto personale e non al quadro generale, o al futuro del suo sport. Dovrebbe saperlo più di altri: è nella natura di una disciplina individuale e non socialista come il tennis, curare l’orticello di proprietà.

Quando si trattava di fare (giuste) battaglie del grano, anche a lui era capitato di guidarle (e di prendersi dell’avido mercenario, o qualcosa di simile). È pure vero che i giocatori sono spesso disinformati, ignari delle loro stesse prerogative, alcuni anche rozzi. Mal consigliati, approssimativi. Ma non tutti hanno una laurea in legge e un master in business administration, o il quoziente di intelligenza che schizza fuori dal grafico. Taluni sanno solo tirare il dritto e contare quanto hanno guadagnato in un mese, e meritano rispetto anche se duri di comprendonio, perché l'unica competenza richiesta loro è saperci fare col tennis. E se non accettano che un top manager della loro associazione guadagni più di loro, o che non offra risposte concrete (o che ritengono soddisfacenti), non imputerei le colpe solo alla bassa scolarizzazione, o all’egoismo endemico dello sportivo, o allo spirito polemico del bastian contrario. Se sono insoddisfatti, e sono tanti, tocca anche prendersi le responsabilità per chi c’era prima, e non ha fatto nulla per sterzare con decisione. Dare la colpa a chi ha governato nel passato o alla volubilità del tennista non sarebbe una buona strategia e, difatti, credo che Gaudenzi non voglia perseguirla.

Secondo Gaudenzi, il tennis dovrebbe raccogliere più denaro dalla vendita dei diritti televisivi dei tornei del Tour

È vero, l’ATP ha tagliato i bonus riservati ai primi 12 – che, per conto mio, proprio non dovrebbero esistere stante la sperequazione già siderale tra un manipolo di superstar e tutti gli altri - per distribuirli ai perdenti nelle qualificazioni e nei primi turni dei tornei 250 e 500. Sostiene economicamente chi vuole continuare a organizzare eventi Challenger. Ma non è, per intenderci, come l’Australia che ha sostanzialmente stipendiato tutti i suoi cittadini colpiti dalla crisi causa covid. Somiglia più ai ristori all’italiana: qualcosa, sì, ma non a tutti i danneggiati, e niente che possa davvero restituire il sorriso e la tranquillità a chi sta perdendo occasioni su occasioni di vincere e incassare. Già un anno fa, prima del disastro del virus nel mondo, l’ATP voleva riunire i tornei e cambiare i pesi sulla bilancia. La proposta al vaglio era di distribuire in modo diverso il fatturato di un evento, aumentando la fetta della torta per i giocatori. Il tennis, da questo punto di vista, è lontanissimo dal golf o dal basket NBA, in cui si riconosce in questa maniera chi lo spettacolo lo dà. Lo si dice da anni, ma nulla di tangibile è mai accaduto per cambiare la direzione della corrente. E non certo per colpa delle seconde e terze linee del tennis.

Se, nel ventre molle dell’ATP, in piena pandemia la PTPA di Djokovic e Pospisil è riuscita a insinuarsi, è anche perché ci sono territori che sono rimasti troppo a lungo impresidiati. Hanno ingaggiato professionisti, stanno organizzando meeting per nazioni, incaricando i loro rappresentanti legali di illustrare il senso e gli scopi della nuova associazione. Mostrano ai giocatori le possibili ripartizioni dei premi, fanno (giusti) confronti con altri sport. È molto probabile che stiano preparando il terreno per la prossima stagione: del resto, per il 2021, chi gioca il Tour ha firmato il contratto, nel quale è esplicitamente fatto divieto, tra le altre cose, di partecipare a enti associativi che possano in qualche modo sovrapporsi o scavalcare la rappresentanza fornita dall’ATP. Sbilanciarsi sul fatto che possano avere successo, oggi, è mero esercizio di tiro dei dadi. Però una cosa si può dire: se è leader chi sa - e ha il coraggio di - prendere decisioni, anche impopolari, lo è parimenti chi riesce a guadagnarsi il sostegno di coloro di cui custodisce il mandato, e nel cui interesse agisce. Quando si vivono periodi di difficoltà, cresce il desiderio di rappresentanza: le persone vogliono essere conquistate anche umanamente, capite e guidate. E i sentimenti non sono traducibili con un algoritmo, né una presentazione in Powerpoint.