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STORIA DELLE RACCHETTE

La rivoluzione di Howard

In un gioco refrattario alle innovazioni, solo alla fine degli anni 70 il legno ha lasciato spazio al metallo nella costruzione di racchette. Grazie a Howard Head e al suo racchettone

di Corrado Erba
8 giugno 2020

È curioso come il gioco sia rimasto fondamentalmente immutato per decenni, dalla sua invenzione, ovvero dalle prime scatole di Sphairistike di Sir Clopton, fino agli anni 70. I courts rimasero perlopiù in mattone tritato o in erba, tanto che si parlava di lawn tennis e gli abiti candidi, anche se il vecchio Bunny Austin contribuì a sdoganare gli shorts tra gli uomini, mentre Ted Tinling, con l’affezionata complicità di alcune ladies scatenate, tra cui Lea Pericoli, fece entrare pizzi e gonnelline all’interno dei Doherty Gates. Gli attrezzi invece sono rimasti sostanzialmente identici: lignei, affusolati, fusti di frassino e betulla, con una superficie di battuta di 65 pollici e un peso intorno ai quattro etti, o qualcosa di più.

Nel 1920 una ditta di Birmingham aveva cercato di introdurre il metallo, usando addirittura le fibre utilizzate per produrre pianoforti, ma gli esperimenti rimasero traballanti e privi di riscontro, fino a quando Renée Lacoste non creò un telaio che la Wilson si affrettò ad acquistare e ribattezzare T2000: era la prima racchetta di metallo, priva di vibrazioni sostanziali. Non era tuttavia così facile, tanto che l’unico del mazzo ad adottarla fu il ribelle Jimmy Connors. Come racconta Joel Drucker in Jimmy Connors saved my life, al principio Jimbo non la prese tanto per le prestazioni ma perché, affascinato dai riflessi metallici, voleva essere diverso dagli altri.

La finale dello US Open 1981 vinta da John McEnroe su Bjorn Borg è stata l'ultima in cui entrambi i giocatori utilizzavano racchette di legno: La Dunlop Maxply per Mac, la Donnay Pro Borg per lo svedese

Nel 1920 una ditta di Birmingham aveva cercato di introdurre il metallo, usando addirittura le fibre utilizzate per produrre pianoforti, ma gli esperimenti rimasero traballanti fino a quando Renée Lacoste non creò un telaio che la Wilson si affrettò ad acquistare e ribattezzare T2000

Eravamo quasi agli albori degli anni 80, il Concorde cominciava a far la spola tra Parigi e New York in tre ore e mezzo, si andava nello spazio e si parlava di basi su Marte, ma la racchetta che andava per la maggiore era ancora la vecchia Jack Kramer Pro Staff o, in alternativa, la massiccia Dunlop Maxply. Rigorosamente in legno.

Fu Howard Head, vecchio patron della AMF (sì, la Head, quella) che, abbandonata l’azienda che portava il suo nome, si mise a commerciare macchine lanciapalle, prodotte da un’azienda di Princeton, New Jersey, famosa per essere sede della vecchia università della Ivy League. Adottato il nome Prince, il vecchio Howard prese a riflettere che i vecchi tromboni dei circoli circostanti avrebbero sicuramente fatto meno fatica a respingere gli attacchi delle macchine lanciapalle se armati di un attrezzo più leggero e con un piatto corde più grande. La leggerezza sarebbe stata originata dall’uso dell’alluminio, il piatto ingrandito fino a raddoppiare i 65 pollici delle standard size. Nacque così la Prince Aluminium, il primo racchettone, come cominciarono a chiamarlo nei circoli italiani, storcendo la bocca.

«Hai perso Beppe?»

«Sì, ma con uno che giocava con il racchettone» 

«Naaaaaaaaaa»

La Prince Aluminium nacque nel 1979 per fornire un determinato target di giocatori, preferibilmente anziani, necessitanti un aiuto derivante dal piatto ingrandito. Per alcuni anni, impugnare un padellone fu quasi oggetto di scherno, fino a quando alcuni junior provarono e gradirono. Va detto che era uscita la Prince Pro, una racchetta più sensibile e precisa che subito conquistò il bizzarro quanto geniale quadrumane Gene Meyer e il promettente aussie Peter McNamara anche se, in realtà, la prima vera star a usare il racchettone fu la già affermata Pam Shriver nel 1981, mentre la sua amica e compagna di doppio, Martina Navratilova, adottò prestò un telaio midsize della giapponese Yonex.

La visita di Chris Edwards nella sede di Head a Kennelbach, Austria, in cui si mostra come si costruisce una racchetta

Si era all’inizio degli anni 80 e le novità erano viste dalla Federazione internazionale come attentati all’integrità del gioco, tanto che il council dovette pronunciarsi sulla regolarità di due nuovi prodotti: l’incordatura spaghetti e, appunto, il racchettone.

La spaghetti prevedeva un doppio strato di corde, che veniva intrecciato sul telaio, a creare buffi effetti e uno spin esagerato. Fu proprio con una spaghetti che l’istrionico rumeno Ilie Nastase concluse un filotto vincente di 46 match di Guillermo Vilas, battendolo in finale nel torneo di Aix-en-Provence (Guillermo si ritirò furibondo, sotto di due set). Assumendo che la spaghetti fornisse un vantaggio unfair, venne bandita dal circuito, mentre il racchettone Prince, additato a irregolare data la grandezza del piatto e conseguentemente dello sweet spot, venne dichiarato regolare, stante che il regolamento non prevedeva delle misure standard, al punto che il presidente dell’USTA ebbe a dichiarare: «Puoi giocare con una lattina di pomodori e un manico di scopa, se basta a vincere!».

Nel 1982, Jimmy Connors vinse a Wimbledon in finale su John McEnroe usando la mitica Wilson T2000

«Dopo il primo test pensai che una racchetta così fosse illegale. Poi mi dissi: che diavolo, fin quando mi lasciano usarla, va bene» Martina Navratilova sulla Yonex R22

Fu la definitiva introduzione dell’oversize a sdoganare piatti meno ampi dei classici 110 ma più performanti. La vera rivoluzione avvenne però nel 1982: ero in macchina e mormoravo a mio padre: «Ma dai, anche McEnroe ha preso il racchettone», anche se parlavo solo del classico midsize da 85 pollici della mitica Dunlop Max 200G (leggenda vuole che Mac ne rubò una al fratello, innamorandosi all’istante). Si appaiarono presto le Pro Staff e le prime Rossignol F200, con piatti corde che adesso sembrano antidiluviani.

L’ultima finale di Slam all woods si giocò nello stadio di Flushing, nell’agosto del 1981: cinque set tra la nera Donnay di Bjorn Borg e la classica Maxply di Johnny Mac. Il primo Slam dell’anno 1982, a Parigi, (l’Australia era ancora l’ultimo, all’epoca) vide la prima vittoria in assoluto di una racchetta midsize, per merito di Martina Navratilova, che vinse il suo primo Open di Francia, appena tre settimane dopo aver lasciato il legno per la classica forma squadrata della Yonex R22 («Dopo il primo test pensai che una racchetta così fosse illegale. Poi mi dissi: che diavolo, fin quando mi lasciano usarla, va bene» raccontò Martina). Il giorno dopo, Mats Wilander fu il primo a vincere uno Slam maschile impugnando una racchetta non di misura standard (per i tempi): la sua Rossignol F200 con il ponte invertito, prevalse dopo quattro lunghissimi set al mulinare della Slazenger in legno composite di Guillermo Vilas.

Fu quella l’alba di una nuova era che subì una crescita subitanea e improvvisa che, al contrario di altri sport, non trovò freni regolatori adeguati, regalandoci, anni dopo, una deregulation che ha portato a materiali sempre più facili, leggeri, intimidatori. L’ultimo giocatore a presentarsi sul tour con una racchetta di legno? Bjorn Borg, Montecarlo 1991, in quella bizzarra avventura che portò al suo tentativo di ritorno in campo. Impugnava una racchetta di legno, fatta su misura da un artigiano di Cambridge (Gray’s), l’unico che potesse replicare le sue ormai defunte Donnay (il suo ex coach, Lennart Bergelin, saputo del ritorno, si precipitò al circolo con un mazzo di vecchie Donnay che aveva in cantina, ma il vecchio fu respinto, da un Bjorn ormai preso da santoni e cantanti rock). Riuscì, Bjorn, a racimolare cinque faticosi game, strappati al roteante baluginare di una profilata spaziale impugnata da un onesto pedalatore, Jordi Arrese 

Ormai i buoi erano scappati.