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ASICS TENNIS ACADEMY

The Coach: Giorgio Galimberti

Ex numero 2 del mondo junior e Davisman azzurro con best ranking al n.115 ATP, Giorgio Galimberti ha fondato il Queen’s Club di Cattolica, un gioiello incastonato nella riviera romagnola. All’interno, un’academy che ha l’ambizione di diventare un riferimento internazionale e che rappresenta il percorso ideale per chi vuole diventare un giocatore professionista.

Intervista di Lorenzo Cazzaniga
10 luglio 2023

L’effetto Wow non si scomoda facilmente. All’appassionato tennista accade nell’istante in cui varca i Doherty Gates, se gli riesce una smorzata millimetrica sul set point o quando Anna Kournikova decideva di vestire un gonnellino più corto. Beh, una sensazione simile l’ho provata entrando al Queen’s Club, pur senza incontrare Anna Kournikova. Non parlo di quel meraviglioso club londinese circondato da case vittoriane che ospita un ATP 500 prima dei Championships, ma di quello che Giorgio Galimberti ha creato a Cattolica, provincia di Rimini, a dimostrazione che un’ottima carriera sportiva può essere un buon viatico per diventare un abile imprenditore. È quanto riuscito al Gali, classe 1976, numero 2 del mondo juniores (con tanto di finale a Roland Garros), best ranking al n.115 nel 2003, e nove successi (due in singolare e sette in doppio) in Coppa Davis come highlights di una carriera che lui definisce «discreta» ma che per tanti talenti rimane un sogno. Nel post-carriera, oltre a essere diventato un apprezzato commentatore tv per Supertennis, ha fondato una (vera) academy dove decine di ragazzi inseguono l’obiettivo di diventare dei giocatori professionisti.

Giorgio, perché Queen’s Club?
Per associazione di idee: abbiamo un campo in erba come quello di Londra e Cattolica è chiamata la Regina dell’Adriatico. Ci è sembrato un nome azzeccato.

Come è nata l’idea di questo centro?
Tramite un amico che mi ha messo in contatto col sindaco Cattolica nel 2017. Era un’area totalmente abbandonata, erano perfino cresciuti degli alberi dentro i cinque campi e al Comune sarebbe piaciuto riqualificarla. Un amico costruttore ha formato un pool di tecnici e realizzato un progetto di fattibilità che abbiamo presentato. Al bando pubblico eravamo presente solamente noi perché comunque si trattava di un investimento da circa tre milioni di euro e serviva una visione precisa di quello che si poteva fare e le competenza per riuscirci. Il percorso è stato accidentato ma fortunatamente abbiamo fatto tutto a regola d’arte, grazie anche alla presenza di un esperto di project financing

«L'aspetto più difficile è soddisfare le esigenze di tutti i giocatori e dei loro genitori che sono inevitabilmente diverse. Io non prometto niente che non penso di poter mantenere e credo che questo faccia la differenza»

Giorgio Galimberti è più imprenditore o coach?
Un compromesso delle due cose, sfruttando tutte le 24 ore della giornata. Al Challenger di Trento seguivo cinque giocatori ma stavo in piedi fino a tarda notte per chiudere i contratti di sponsorizzazione del torneo Futures che abbiamo messo in piedi quest’anno.

Qual è l’aspetto più difficile della tua attività?
Soddisfare le esigenze di tutti i giocatori e dei loro genitori che sono inevitabilmente diverse. Io non prometto niente che non penso di poter mantenere e credo che questo faccia la differenza.

E l’obiettivo che ti sei posto?
Diventare un’accademia veramente internazionale con tanti giocatori stranieri e arrivare alla saturazione delle potenzialità di questo club, quindi con circa 50 giocatori full time. Ora siamo a trenta con oltre 50 part time e già questo è un risultato che poche strutture possono vantare in Italia.

E a livello sportivo?
Siamo trasversali, con una scuola tennis che deve lavorare bene per diventare il bacino che in futuro riempirà la nostra accademia di giovani promesse da traghettare fino al professionismo di medio-alto livello. Poi valuteremo: io non ho intenzione di fare il coach di un giocatore singolo perché non posso viaggiare per 25-30 settimane, però potremmo creare una struttura collaterale specifica per questo motivo. Non bisogna mai essere sottodimensionati ma nemmeno sovradimensionati: il giusto equilibrio è ciò che tiene in piedi un’accademia.

«Io sono molto chiaro: se si presenta un ragazzo che ha intenzione di abbandonare la scuola, lo spedisco da un’altra parte. Bisogna sempre avere un piano B...»

Un tempo si diceva che aprire un’accademia di tennis era un buon modo per perdere soldi...
Li perdi se non sai fare l’imprenditore, se invece la gestisci bene, si guadagna. Al mio fianco ho Michele Bertuccioli, un ottimo commercialista che ha realizzato un business plan sostenibile e facciamo molta attenzione ai numeri che devono sempre quadrare.

Le possibilità di diventare giocatori professionisti sono piuttosto ridotte: quanto ti senti responsabile del sogno di un ragazzo e della sua famiglia?
Io sono molto chiaro: se si presenta un ragazzo che ha intenzione di abbandonare la scuola, lo spedisco da un’altra parte. Accetto la scuola online perché può comunque essere formativa e ti permette di accedere all’università, ma il percorso scolastico va completato. Bisogna sempre avere un piano B, invece a quello C posso provvedere direttamente perché già alcuni ragazzi lavorano nella mia accademia.

Tu sei stato un ottimo esempio sotto questo punto di vista.
Certamente. Sono arrivato al 115 del mondo che è un ottimo ranking ma ben diverso dall’essere stato top 20, quindi ho bisogno di lavorare. Però il tennis mi ha offerto l’opportunità, cosa accaduta anche a chi è stato numero 500 o 600. Così facendo, vivi meglio il percorso, genitori compresi.

Quanto è complesso il ruolo di coach?
Tanto. E poi ce ne sono di diverso genere. Per esempio, io non ci saprei granché fare con i bambini piccoli e con i professionisti di alto livello dovrei comunque imparare perché è un ambiente che ho conosciuto poco, avendo allenato solo un top player come Simone Bolelli per alcuni mesi. Attualmente il mio habitat è un livello medio di professionismo e seguo diversi giocatori che disputano tornei Futures e Challenger. Comunque, non mi faccio venire strane voglie perché alla fine il mio compito è restare tanto in accademia e far funzionare le cose.

Una veduta aerea del queen's Club di Cattolica

«Per lavorare nella mia accademia, un coach deve essere totalmente dedicato, come gli allenatori che ho avuto io. Dopo la famiglia, viene il lavoro. La mia famiglia è brianzola: lavurà, lavurà, lavurà»

Che qualità deve avere un coach per lavorare nella tua accademia?
Deve essere totalmente dedicato, come gli allenatori che ho avuto io. Maurizio Riva non aveva l’orologio, né conosceva week-end o festività. Dopo la famiglia viene il lavoro. La mia famiglia è brianzola: lavurà, lavurà, lavurà. Igor Gaudi non è solo il mio miglior amico, ma è al mio fianco perché è uno stakanovista, abbiamo gli stessi valori. E così tutti gli altri. Poi servono competenze specifiche, gli improvvisati li evito. E ancora, equilibrio ed empatia. Ogni giocatore deve essere trattato individualmente perché con qualcuno serve la carota, con altri il bastone. Un coach deve disporre di tanti strumenti e imparare a usare quelli giusti a seconda delle circostanze. Un giorno, un mio giocatore si lamentava costantemente: l’ho preso a male parole, così da metterlo nelle condizioni di dovermi dimostrare qualcosa. Alla fine ha vinto un match che sembrava perso. Semplicemente ho capito cosa serviva con quel dato giocatore in quel dato istante. Il coach non deve avere per forza conoscenze di psicologia, per quello ci sono i professionisti del settore, ma deve saper legger ei momenti.

La scuola italiana pare di altissima qualità, tutti giocano un gran bel tennis.
Ora stanno arrivando grandi risultati a livello pro e tutti ne parlano, ma in Italia si è sempre insegnato bene, però è migliorato l’allenamento dell’aspetto mentale. Negli anni 90 e duemila, il mental coach era una rarità, io stesso non l’ho mai avuto e nemmeno qualcuno me l’ha mai proposto, mentre all’estero ci sono arrivati prima. E la parte mentale fa la differenza in questo sport.

Lorenzo Musetti con Simone Tartarini, Vincenzo Santopadre con Matteo Berrettini, Lorenzo Sonego con Gipo Arbino e così via: nel tennis coach e giocatori italiani hanno un legame molto stretto e duraturo: come lo spieghi?
Semplice, se un giocatore cambia molto speso l’allenatore, vuol dire che il problema non è l’allenatore! Quando nascono grandi empatie, non vedo perché cercare qualcosa d’altro. Perché puoi essere Mouratoglou ma se il giocatore non è totalmente dedicato, non raggiunge comunque i suoi limiti. Quelli che hai citato sono rapporti forti, con valori umani importanti che ti aiutano anche sul campo. Diventano secondi padri, fondamentali soprattutto nei momenti bui.

Giorgio Galimberti con Igor Gaudi, l'amico di una vita e ora collega nella sua accademia

«Se un giocatore cambia molto speso l’allenatore, vuol dire che il problema non è l’allenatore!»

Il coach è anche colui che deve cazziare il suo datore di lavoro.
Se non hai questa capacità, hai sbagliato mestiere. È il nostro ruolo, tenere il giocatore sulla retta via, trascinarlo in campo anche quando non ha voglia e aiutarlo se gestisce male la sua vita. Il giocatore cerca qualcuno che faccia questo, non uno che gli porti la borsa. Io sono passato da Maurizio Riva a Fabrizio Fanucci solo perché dopo tantissimi anni non mi teneva più e facevo quello che volevo. Altrimenti non avrei mai cambiato.

Chi ti ha aiutato di più a diventare quello che sei oggi?
La famiglia in primis. Ho due genitori profondamente diversi: mio padre è concreto, rigido il giusto, poche cazzate e tanto lavoro. Quando ero numero 2 al mondo junior, lui mi ha tenuto con i piedi per terra. Mia madre invece mi ha insegnato a star bene con tutti e infatti ho amici sparsi per il mondo, anche se in campo ero un vero stronzo. Ho anche avuto la fortuna di avere sempre al fianco brave persone. Per dire, Maurizio Riva mi ha dedicato la sua vita, ci sentiamo ancora adesso, è rimasto nel mio cuore. 

La tua esperienza, anche difficile, di giocatore professionista, quanto ti aiuta adesso?
Tantissimo. Non solo in campo ma anche nella vita imprenditoriale, quando devi affrontare problemi importanti. Se sei stato Djokovic, ti basta mettere le mani in tasca e finisce lì, qui abbiamo dovuto risolvere problemi che non mi hanno fatto dormire la notte per settimane. Ora che il centro è partito e ho il termometro della situazione, non mi spaventa più nulla. Il tennis ti forma come persona, diventi un uomo molto velocemente.

Segui giocatori di buon livello, intorno al numero 300 del mondo: com’è allenare in quella fascia di classifica, probabilmente la più difficile da gestire?
È il purgatorio del tennis perché guadagnano poco e la concorrenza è altissima, tutti giocano molto bene. Inoltre, non alleni individualmente ma un gruppo di giocatori, ognuno con le sue esigenze. Un bell’aiuto ci arriva da Simone Bertino e la sua videoanalisi che ci permette di avere una linea tecnica comune. Però è più difficile allenare il numero 300 che il numero 90.

Il meraviglioso campi in erba naturale del Queen's Club di Cattolica

«Sono malato di tennis! Nel corso del tempo ho cambiato la mia percezione su alcuni aspetti. Sono in continua evoluzione, come lo sport»

Cosa ti è mancato per diventare un top player?
Saper gestire le emozioni in campo. Ero Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Se sei un folle, non ti posso trasformare in Pete Sampras, però non aver lavorato sull’aspetto mentale mi ha affossato. E poi si lavorava meno tecnicamente: il rovescio me lo portavo da casa, ma avrei dovuto migliorare tanto nel lato del dritto e nella predisposizione a conquistare la rete perché a rete ero buonissimo, davvero buonissimo. Però non piango su quello che non è stato, anche perché ora sono felicissimo.

Si gioca meglio oggi?
Certamente, tutto è cresciuto, anche gli attrezzi e soprattutto le corde che fanno una grande differenza. La scienza ha fatto la differenza, ci sono strumenti più adeguati e tutti sono resistenti, veloci, elastici. Se prendi una partita di Federer del 2005 e del 2020, il ritmo è molto diverso.

Come sarà il tennista del prossimo futuro?
Difficile prevederlo: il servizio è diventato basilare ma contestualmente è cresciuta la fase di risposta. La smorzata era sparita, ora si gioca tantissimo. Sono convinto che l’attacco in controtempo può fare la differenza e spesso i giocatori che non riescono a fare il salto di qualità sono quelli che spingono tanto da dietro ma non finalizzano mai. L’Istituto di Formazione dice che ci sono cinque tipologie di giocatore: serve& voley, attaccante da fondo, contrattaccante, attacking player e giocatore completo ed è quest’ultima categoria che si sta imponendo. Tutti hanno un piano A, ma anche quello B, C, D...

Considerando tutte le implicazioni del caso, quanto è complicato per un coach riconoscere i talenti? Prima passavano dal campo, davano uno sguardo e sceglievano...
Devi scoprire tante cose perché non basta saper giocare bene a tennis. Ha volontà di lavorare? È fragile fisicamente? Conduce una vita regolare? L’aspetto tecnico è fondamentale ma non è sufficiente. Ci sono giocatori che spaccano la palla ma che mentalmente sono mediocri, cercano alibi in continuazione e così non arrivano mai. 

Tra gli allievi della scuola tennis c’è anche tuo figlio Pietro: com’è avere un figlio che comincia un percorso sportivo?
Come suo padre, in campo mostra un carattere un po’ fumantino, però è molto coordinato e infatti riesce bene in diversi sport, come sci e golf. Ha 10 anni e solo intorno ai 15 anni si può scoprire se un ragazzino è sufficientemente dotato per dedicarsi in maniera importante a uno sport. Ne abbiamo visti di campioni italiani under 12 e 14 che ora fanno un altor mestiere. Lui vede i professionisti e già si vede fare quella vita e, se avrà un buon livello di gioco, sicuramente gli offrirò l’opportunità di provarci. Dopotutto, il tennis è una grande scuola di vita.

Com’è allenarlo?
Ho capito quanto i genitori vivono intensamente i match dei figli. Succede anche a me che sono del mestiere! Faccio fatica ad allenarlo perché mi permetto atteggiamenti che sono sbagliati, non ho pazienza e mi scoccio facilmente perché vorrei che approcciasse il tennis già con l’atteggiamento di un professionista. Infatti ho fatto un passo indietro e lascio che lo seguano altri coach e lo stesso dovrebbero fare certi genitori.

I genitori sono cambiati negli anni?
Sì, sono peggiorati! Non posso generalizzare e personalmente sono piuttosto fortunato, ma in giro vedo situazioni agghiaccianti, con genitori che vogliono fare i manager del figlio di 14 anni, con tanto di programmazione già decisa, magari da venti tornei all’anno, senza comprendere che il torneo allena le capacità agonistiche ma non aiuta a migliorare fisicamente e tecnicamente e quindi bisogna sapere quale strada scegliere. Ci sono dei riferimenti della Federazione Internazionale che è fondamentale conoscere perché derivano da studi condotti con tanti fuoriclasse nel corso degli anni.

Preferisci stare in campo o dietro la scrivania?
Cinquanta e cinquanta. Stare sul campo è ancora un piacere e quando un mio giocatore vince una bella partita, è un orgasmo. Però anche organizzare il mio primo torneo Futures e vedere il tabellone degli sponsor bello completo è una grande soddisfazione. Sport e business possono offrire grandi emozioni, anche se in maniera diversa. E per l’anno prossimo ho già fatto richiesta per organizzare un ATP Challenger.

«Sono Asics-dipendente e ho una scarpiera pazzesca. Insomma, credo che al mio funerale, mi infileranno un bell’abito e le scarpe Asics»

Qual è il tuo rapporto con Asics?
Semplice, amore puro, dal gennaio 1995.

Anche perché appena passato professionista si è parlato di un contratto molto ricco.
Vero, un accordo che mi ha pure destabilizzato. Ne parlò anche la Gazzetta dello Sport, creando una forte pressione. Ricordo che mio padre mi disse: ‘Io non ci vengo a fare queste cose: ti pagano tanto e ancora non hai vinto nulla’. In realtà ero stato numero 2 del mondo junior e finalista a Roland Garros U18 e le premesse giustificavano certe scelte. Arrivato a 20, 21 anni, mi sono un po’ fermato e sono cominciate le critiche. Però sono un persona resiliente e mi sono ripreso, al punto da qualificarmi al Foro Italico e allo US Open, ho preso consapevolezza e per un lungo periodo sono rimasto tra il numero 115 e 150 del ranking mondiale, con la soddisfazione di aver vestito la maglia azzurra in Coppa Davis.

Fossi nato in un’epoca con tanti giocatori italiani forti, come accade adesso, ti avrebbe aiutato?
Indubbiamente perché i buoni esempi sono un traino, ti mostrano la strada, quello che serve per arrivare in alto. Fortunatamente, i top player attuali sono molto disponibili con i più giovani. Passaro e Arnaldi interagiscono con Sinner e Musetti, mentre io con i vari Gaudenzi e Furlan facevo fatica a parlarci.

Allo stesso modo, la Asics Tennis Academy ha avvicinato tanti coach.
Un’iniziativa splendida perché ci sono tanti coach di personalità che non hanno timore a condividere le loro conoscenze. Anzi, lo scambio di competenze aiuta a crescere. E poi c’è anche un aspetto pratico perché in tante parti del mondo ci sono allenatori ai quali potrei rivolgermi per un appoggio logistico e tecnico. Il valore professionale è molto alto.

Galimberti studia ancora il tennis?
Certo, sono malato di tennis! E spesso, nel corso del tempo, ho cambiato la mia percezione su alcuni aspetti. Sono in continua evoluzione, come lo sport. Per esempio, con i ragazzi di 11, 12, 13 anni, quando notavo poco consistenza nei colpi, li facevo scambiare tanto e finivo col trascurare i colpi di inizio gioco, servizio e risposta. Così, guadagnavano da un lato e perdevano dall’altro. Ora ho imparato a creare il giusto equilibrio.

Tecnicamente, qual è la novità più interessante che hai notato?
L’attacco in controtempo è diventato uno schema determinante. Studio le tendenze per essere più performante con i miei giocatori. Anche il servizio, lo alleniamo fino a 40 minuti al giorno e in mezzo alla lezione perché è un colpo fondamentale e va praticato con la mente fresca, non dopo due ore di spostamenti.

Dopo 30 anni di partnership con Asics, cosa rappresenta questo brand?
Ne sono sempre più innamorato. Tennis, casual, sneakers, appena vedo una Asics, non resisto e compro. Sono Asics-dipendente e ho una scarpiera pazzesca. Insomma, credo che al mio funerale, mi infileranno un bell’abito e le scarpe Asics.

Queen's Club Cattolica

Il Queen’s Club Cattolica è nato nell’agosto del 2022 dall’idea di Giorgio Galimberti di creare un centro sportivo all’avanguardia sulla riviera romagnola. Sorge grazie al progetto di riqualificazione del vecchio circolo tennis di Via Leoncavallo e dispone di 9 campi da tennis (5 in terra rossa, 3 in cemento e uno in erba naturale), 2 campi da padel, una palestra attrezzata Technogym, un centro medico-sportivo (Fisioclinics Cattolica, bar e ristorante Streetfood 1271.

Lo staff è composto da Giorgio Galimberti, fondatore e direttore del club (Tecnico Nazionale FITP), Igor Gaudi (maestro nazionale FITP), Davy Arcangeli (maestro nazionale FITP), Martin Torretta (istruttore 2° grado FITP), Terence Vagba Nugent (istruttore 2° grado FITP), Leonardo Manzini (istruttore 2° grado FITP), Nazario Boni (istruttore 2° grado FITP), Simone Bertino (videoanalisi, maestro nazionale e Professional PTR), Luca Fiore (preparatore fisico), Giacomo Mancini (preparatore fisico), Roberto Ciotti (executive coaching), Andrea Agostini (osteopata e massofisioterapista), dott. Piero Benelli (medico specialista in medicina dello sport), dott. Alexander Bertuccioli (chirurgo e biologo nutrizionista) e Monica Costa (coordinatrice segreteria).