The Club: Bola Padel Roma
LA STORIA

Bevo tre birre al giorno e vado in finale al Roland Garros

Per due settimane, nel 2003, Martin Verkerk ha giocato come in paradiso. Eppure non si è mai privato delle gioie della vita, tra bevute, ristoranti giapponesi e una sortita al night dopo l'impresa su Moya. Incostanza e infortuni lo hanno trascinato nel dimenticatoio, ma ancora oggi ha un piccolo rimpianto: “Proprio quella mattina doveva piovere?”

Riccardo Bisti
14 giugno 2020

Forse è giusto che non abbia vinto il torneo. Juan Carlos Ferrero, da buon Mosquito, ronzava da anni attorno al trofeo del Roland Garros. La gloria tennistica di Martin Verkerk, invece, si è limitata a due settimane parigine tra maggio e giugno 2003. Da numero 46 ATP, arrivò a un passo dal vincere uno Slam. Non era successo prima, non sarebbe successo dopo. Ce l'avesse fatta, sarebbe stato il più clamoroso One Slam Wonder nella storia del tennis. Ma la storia resta lì, e non si può cancellare. È facile liquidare il gigante di Alphen aan den Rijn come una meteora, ma quelle due settimane gli hanno cambiato la vita. E l'hanno cambiata anche a chi ebbe la fortuna di seguirlo da vicino. Quella di Verkerk è una storia pulita ed è giusto incastonarla, senza doverla liquidare a tutti i costi. Lo sanno bene in Olanda: un paio di settimane fa, la tv pubblica NOS ha dedicato uno speciale di quasi due ore a quell'impresa sfiorata, con immagini di repertorio e ampie sintesi dei momenti più significativi. Giusto, perché i dati d'ascolto furono addirittura superiori rispetto a Wimbledon 1996, quando Richard Krajicek vinse il torneo. La storia del proletario della racchetta che si siede al banchetto dei grandi attira sempre.

Da buon scaramantico, tuttavia, Verkerk mantenne le sue abitudini: ogni sera al ristorante giapponese, ogni sera il solito menù: sushi, sashimi, gamberi fritti e tre birre. Dove lo trovate uno che si lascia fotografare come lo vedete qui sopra, nelle fasi finali del torneo della vita? Il cantore privilegiato di Verkerk fu il giornalista Martin Vriesema di NOS, che sbarcò a Parigi senza aspettative. Doveva seguire i quattro olandesi in gara. Oltre a Mighty Marty, c'erano Sjeng Schalken, Raemon Sluiter e John Van Lottum. Ben presto, l'occhio della telecamera olandese si è appoggiato su Verkerk. Al secondo turno cancellò tre matchpoint a Luis Horna, reduce dall'impresa su Roger Federer (ed è esilarante rileggere i commenti dell'epoca, colmi di scetticismo sulle possibilità Slam dello svizzero). Ormai era partito per la tangente: via Spadea al terzo turno, via Rainer Schuettler negli ottavi. Quell'anno, il tedesco aveva raggiunto la finale in Australia e poche settimane dopo sarebbe arrivato in semifinale a Wimbledon. Ma contro l'esuberanza di Verkerk c'era poco da fare: servizi-bomba (“Il mio record personale è 242 km/h” ricorda oggi), rovescio da favola e attacchi disordinati ma efficaci. Schuettler era l'ultimo tedesco in gara, così la TV pubblica di Germania lasciò Parigi: cinque minuti di trattativa, e NOS potè noleggiare i loro studi. Verkerk era allenato dal neozelandese Nick Carr, il quale si commosse davanti alla telecamera. “Non vedo ragioni per cui non possa entrare tra i top 20-25. Mi aspettavo che potesse fare bene a Wimbledon, ma non qui...” e via di commozione, con lacrime in diretta TV.

"Ogni sera si recava allo stesso ristorante giapponese e faceva sempre la stessa ordinazione: sushi, sashimi, gamberi fritti e tre birre"
La grande impresa contro Carlos Moyà nei quarti

Nei quarti, contro il super specialista Carlos Moya, vinse i primi due set e si fece riprendere. Nessuno pensava che al quinto ce l'avrebbe fatta. Invece riaggiustò il mirino al servizio e alcune bordate a occhi chiusi gli regalarono il break al tredicesimo game. 8-6 al quinto, simboleggiato da quegli occhi spiritati che sono diventati un'icona, quasi come quelli di Totò Schillaci a Italia '90. “Quel giorno, Martin dimostrò di essere molto forte mentalmente” ricorda Vriesema, che poi avrebbe addirittura scritto un libro: “Extreem: la vera storia di Martin Verkerk”. Nel frattempo erano arrivati a Parigi i suoi genitori: per questo, festeggiò il successo con la sua famiglia andando in un night. Nello stesso locale, ad affogare il dolore per la sconfitta, c'era anche Moyà. Lo vide, andò al suo tavolo e si complimentò con lui. Non poteva fare altrimenti, visto che aveva incassato 97 colpi vincenti da uno che l'anno prima “non sapeva manco come giocare la volèe”.

Servizi in tv, titoli sui giornali, entusiasmo alle stelle. John McEnroe lo aveva paragonato a Rocky Balboa, mentre Nicola Pietrangeli ebbe l'intuizione già settimane prima. “Occhio a questo Verkerk...” sussurrava al Foro Italico, laddove si era spinto fino ai quarti. La favola avrebbe dovuto terminare in semifinale contro Guillermo Coria, padrone di Amburgo e reduce da 11 vittorie di fila. Ma quando mai: tre set a zero e rispedite in Argentina tutte le alchimie del “mago”. Di quel match si ricorda il gesto di stizza di Coria, che lanciò la sua racchetta verso una raccattapalle dopo aver perso il primo set. Mani nei capelli, scuse immediate, polo regalata alla ragazzina. Sapeva che un gesto del genere era da squalifica immediata. Fu graziato, Verkerk scrollò le spalle come a dire: “Non c'è problema, ci mancherebbe”. Poteva perdere la concentrazione, invece rimase di ghiaccio fino all'ultimo. “È difficile giocare contro uno che serve come una bestia e spara botte impressionanti da ogni lato” esalò Coria. Verkerk si presentò in finale con 112 ace, ma all'improvvisò avvertì la pressione del momento.

Verkerk si lascia cadere sulla terra del Suzanne Lenglen dopo la vittoria su Moyà

Lo sapevi che...

A causa della mononucleosi, Verkerk ha perso quasi due anni, dal luglio 2004 all'aprile 2006. In carriera ha vinto due titoli ATP: Milano 2003 e Amersfoort 2004. È stato al massimo n.14 ATP
In semifinale, Verkerk non perse mai la concentrazione contro Guillermo Coria

“Prima della finale mi ero reso conto che era tutto diverso. Rispetto a un altro turno c'è un'altra atmosfera, chiedetelo a un calciatore. E poi c'erano stati 30 gradi per due settimane, invece la mattina della finale ha piovuto”. Risultato? Il campo è diventato lento, pesante, disinnescando la potenza del suo servizio. “Ferrero pesava 30 kg meno di me, quel giorno ho capito perché lo soprannominavano Mosquito. Inoltre ero stanco, era la mia prima volta, mentre lui aveva perso la finale l'anno prima. Insomma, aveva imparato la lezione. Il piatto per il finalista ce l'ho ancora: lo uso a casa per servire gli amari”. I due si sono ritrovati tredici anni dopo, in Olanda, per un'esibizione. Anche lì ha vinto Ferrero, ma Verkerk ha ammesso che gli sarebbe piaciuto rigiocare quella partita in altre condizioni. “Anche se lui era il più forte sulla terra, e avrebbe vinto nove volte su dieci”. Quell'unica, tuttavia, sarebbe potuta arrivare proprio lì. Invece il campo pesante aiutò lo spagnolo a infiocchettare un severo 6-1 6-3 6-2, in un match interrotto da un invasore di campo, nudo. “Sono stato doppiamente sfortunato – disse Verkerk – non solo ho perso, ma l'invadore era un uomo. Almeno Krajicek aveva avuto una donna”. Nonostante il risultato negativo, Verkerk divenne il personaggio più noto in Olanda. Allestirono dei maxi-schermi per mostrare le sue partite, sia nella sua città natale, che nel club di Hilversum.

"C'erano stati 30 gradi per due settimane: doveva piovere proprio il giorno della finale? Il piatto per il finalista ce l'ho ancora: lo uso a casa per servire gli amari" Martin Verkerk
IL LIBRO (se conoscete l'olandese...): Extreem: het ware tennisleven van Martin Verkerk

La fiaba di Mighty Marty è terminata quel giorno, sul mare rosso di Parigi. Sarebbe rimasto su livelli accettabili per un anno, poi nel 2004 è iniziato il suo dramma. Prima problemi a una caviglia, poi la mononucleosi lo ha bloccato per un paio d'anni. Nel 2006 ha giocato solo due partite, tornando a pieno regime soltanto l'anno dopo, ma senza risultati di rilievo. Si sarebbe ritirato nel 2008, giocando la sua ultima partita al Challenger di Tarragona. Si racconta che dopo il ritiro sarebbe caduto in depressione, e per questo lo abbiano lasciato ai margini. Con un peso abbondantemente sopra il quintale, senza più capelli in testa, ha avuto la forza di tirarsi su. Nel 2013, insieme al socio Jaap Plugge, ha inaugurato la Martin Verkerk Academy presso una città dal nome impronunciabile: Noordwijkerhout. Da qualche tempo, l'ha spostata presso il Tennisclub WW all'Aia. Grazie al suo impegno è tornato nei radar federali, fino a essere invitato per la già citata esibizione-amarcord con Ferrero. Nel frattempo si è operato un paio di volte a una spalla, ma ha bilanciato i malanni fisici con una ritrovata serenità personale. Si è sposato e ha una figlia, Nikki, che lo scorso 7 giugno ha compiuto quattro anni .”Ho scoperto sulla mia pelle che i cliche sulla paternità sono veri: mi basta vederla per capire che lei, per me, è tutto”. La bambina è stata male per problemi di intestino, acidità, reflussi, due ricoveri in ospedale... Ma si è ripresa. Così come si è ripresa la vita di Martin Verkerk, l'uomo che per due settimane ha sussurrato al grande tennis. Che non sia riuscito a farlo prima, e nemmeno dopo, in fondo, non ha grande importanza.

Sposato e padre di una bambina, oggi Martin Verkerk ha aperto una sua scuola tennis nei Paesi Bassi