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IL CASO

Il crollo dell'Invencible Armada

Per la prima volta dopo 35 anni, la Spagna ha soltanto cinque giocatori tra i top-100 ATP, peraltro con un età media piuttosto alta. Non ci fosse Carlos Alcaraz, la situazione sarebbe drammatica. Dal pioniere Pato Alvarez alla situazione attuale, come è stato possibile un calo del genere?

Riccardo Bisti
27 febbraio 2024

Un tempo la chiamavamo Invencible Armada. Guardavamo alla Spagna come un modello meraviglioso, fiammante, irraggiungibile. Come era possibile che un Paese con meno abitanti dell'Italia e una società (allora) più arretrata della nostra potesse avere così tanti campioni? Come era possibile che avessero l'innata capacità di produrre continuamente tennisti di livello? Evocare i campioni e il palmares del tennis spagnolo è tanto imbarazzante quanto inutile, poiché non ci vuole nessuna particolare ricerca o lente d'ingrandimento. I numeri colpiscono come un pugno in un occhio. Eppure, oggi è cambiato tutto. La classifica ATP del 26 febbraio 2024 certifica un dato da brividi: ci sono soltanto cinque spagnoli (e nessun catalano!) tra i top-100. Carlos Alcaraz (n.2 ATP), Alejandro Davidovich Fokina (24), Roberto Carballes Baena (66), Jaume Munar (70) e Roberto Bautista Agut (98) sono rimasti gli ultimi esponenti (peraltro con un'età media di 27 anni) di una scuola che l'11 giugno 2001, all'indomani della finale di Alex Corretja al Roland Garros, era arrivata ad avere diciassette top-100.

Numeri conservati per anni, con tanto di cinque edizioni della Coppa Davis intascate tra il 2000 e il 2011 (c'è poi stato il successo del 2019, una sorta di canto del cigno?). Nel 2016 c'erano ancora dieci top-60, ma la crisi è arrivata anche per loro. “Stiamo vivendo una piccola transizione” dice David Ferrer, costretto a fare il diplomatico in virtù del ruolo di capitano di Coppa Davis (per inciso, nel 2023 la sua Spagna è stata eliminata ai gironi, nonostante avesse il vantaggio del fattore campo). “C'è stato un lungo periodo con tanti giocatori tra i migliori e nelle fasi finali dei grandi tornei, adesso ci sono meno giovani emergenti” dice Roberto Bautista Agut, KO nelle qualificazioni di Dubai e a rischio di uscire dall'elite. Il dato statistico fa impressione: non accadeva da 35 anni che la Spagna non avesse così pochi top-100. Era l'agosto del 1989 quando le migliori Furie Rosse con la racchetta erano Emilio Sanchez (15), Sergi Bruguera (27), Jordi Arrese (39), Javier Sanchez (48) e Tomas Carbonell (88). Avevano appena vinto il Roland Garros femminile con Arantxa Sanchez, ma nemmeno loro immaginavano quello che sarebbe accaduto negli anni a venire.

«Pato Alvarez mi faceva correre da tutte le parti: avanti, dietro, di lato, sopra, sotto... diventavo pazzo, al terzo cesto non avevo più energie. Mi diceva che non avrei mai giocato bene fino a quando non avrei terminato tutti i cesti» 
Emilio Sanchez

Lo sport è fatto di cicli, ma si pensava che in Spagna avessero una sorta di bacchetta magica, un elisir di lunga vita racchettara. Si è tanto parlato di Metodo Spagnolo, di fame, di voglia di arrivare e di intuizioni particolarmente felici: per esempio, sono stati i primi a capire che il tennis stava andando in una direzione sempre più fisica e sempre meno tecnica. E allora – in assenza di una federazione particolarmente ricca – sono proliferate piccole e grandi accademie, da cui sono usciti decine di campioni. E c'è un pizzico di commozione nel pensare che l'antesignano di tutto questo non c'è più. Se la Spagna è diventata un Grande Paese del Tennis lo deve – pensate un po' – a un colombiano. Era il 1970 quando Pato Alvarez ha messo piede a Barcellona. Aveva 36 anni, stava per smettere di giocare e un paio d'anni dopo avrebbe assecondato la sua vera vocazione, l'insegnamento, diventando responsabile del settore agonistico presso il Club de Tenis Pedralbes. Il mito è iniziato quando conobbe un ragazzino di 12 anni, di nome Emilio Sanchez Vicario. “Quando sono entrato in campo per la prima volta, ho visto una montagna di cesti pieni di palle – ha raccontato Sanchez – lui mi faceva correre da tutte le parti: avanti, dietro, di lato, sopra, sotto... diventavo pazzo, al terzo cesto non avevo più energie. Ma mi diceva che non avrei mai giocato bene fino a quando non avrei terminato tutti i cesti. Ogni notte me lo sognavo, era completamente diverso dagli altri, però col tempo mi resi conto di quanto fossi migliorato nella mobilità. In quel modo, il nostro circolo iniziò a battere tutti gli altri”.

Fu l'inizio di una leggenda che ha prodotto tanti ottimi giocatori, tra cui quel Francisco Roig che oggi è chiamato a ricostruire la carriera di Matteo Berrettini. La RFET intuì le sue capacità e gli diede il ruolo di direttore tecnico. Personaggio ruspante, una volta disse di sé: “Sono il miglior allenatore di tutti i tempi, non c'è stato nessuno meglio di me”. Forse esagerava, ma non c'è dubbio che la sua disciplina militare abbia fatto proseliti, a partire dallo stesso Emilio Sanchez, che dopo il ritiro ha creato una delle più longeve accademie di alto livello: la Sanchez-Casal Academy di Barcellona. Non c'è dubbio che il metodo spagnolo sia forse il più riconoscibile a livello mondiale, e che sia figlio – magari con qualche aggiustamento – degli insegnamenti di Alvarez: non a caso, tennisti di tutto il mondo si sono formati in Spagna. E ancora oggi continuano a farlo. Basti pensare ai russi (Marat Safin e la sorella Dinara, Andrey Rublev, Karen Khachanov), i britannici (Andy Murray e Johanna Konta), diversi argentini, la nostra Sara Errani, Ons Jabeur, Qinwen Zheng e chissà quanti altri. Adesso c'è la Rafa Nadal Academy di Manacor che è diventata un ricettacolo di promesse da ogni parte del mondo. In un panorama così florido, sorprende che abbiano finito col trascurare i giocatori di casa.

Pato Alvaraz è stato il "padre" del metodo spagnolo. È scomparso nel 2022 a 87 anni di età

Dicembre 2020: la Spagna vince la sua prima Coppa Davis. Pochi mesi dopo, ci sarebbero stati diciassette spagnoli tra i top-100 ATP

Se non ci fosse un fenomeno di nome Carlos Alcaraz, la situazione sarebbe drammatica. Chiudete gli occhi e fate finta che non ci sia Carlitos: in sua assenza, le migliori promesse (ovvero i top Under 23) sarebbero Pablo Llamas Ruiz (n.151), Daniel Rincon (208) e Daniel Merida (401), e si aggrapperebbero a colui che sembra essere l'unico potenziale fenomeno: Martin Landaluce, classe 2006, appena entrato tra i top-400. Un panorama desolante per un Paese abituato a vincere dappertutto. Perché se è vero che gli spagnoli crescono sulla terra battuta, col tempo hanno imparato a diventare forti dappertutto, al punto che il luogo comune sullo spagnolo atipico non ha più ragione di esistere da almeno quindici anni. Non è sorprendente che Alcaraz abbia vinto i suoi due Slam a New York e Londra, e nemmeno che lo stesso Landaluce sostenga che la sua migliore superficie sia l'erba. Le eccezioni, semmai, sono diventati i pallettari vecchia maniera, ma state certi che non vedrete più un giocatore alla Oscar Hernandez, il miglior amico dei giudici di linea da quanto stava lontano dalla linea di fondo. Aneddotica a parte, è difficile comprendere il perché di questa crisi, che certo non sarà attutita dall'eventuale ritorno tra i top-100 di Pedro Martinez o dell'altro vecchietto Albert Ramos.

Di sicuro c'è un po' di casualità, poi si possono fare soltanto ipotesi. La crescita della società spagnola ha creato un benessere tale da togliere la voglia di ammazzarsi sul campo da tennis, come faceva Emilio Sanchez? O forse è colpa delle accademie, che per ragioni di business hanno riservato il loro sapere a chi poteva permetterselo, mettendo da parte i giovani spagnoli? O magari un mix delle due cose? Difficile imputare colpe alla federazione, perché la RFET è sempre stata “periferica” nel sistema dell'alto livello, vuoi per ragioni culturali, vuoi per mancanza di risorse. Anzi, col tempo si sono impegnati a organizzare più tornei possibili, magari su superfici diverse dalla terra battuta, e sono riusciti ad acquistare la licenza di un torneo ATP, a Gijon. Un piccolo grande mistero, insomma. Di certo la Grande y Felicisima Armada, reale nome della flotta che cinque secoli fa solcò sui mari del nord nella guerra anglo-spagnola, e il cui concetto è stato esteso al tennis, non esiste più. I galeoni non sono più maestosi, qualcuno è affondato, altri si sono ridotti a bagnarole. Starà al nuovo capitano Carlos Alcaraz mantenere la gloria, nella speranza che il biondo Martin Landaluce possa rappresentare una linea di continuità tra la gloria passata e le speranze per il futuro.