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WIMBLEDON

Eroi per un giorno. O per un torneo

L’erba è la superficie più imprevedibile, irregolare ed illogica. In concomitanza col centenario del Centrale più famoso del tennis, ecco i 10 protagonisti più improbabili ed inattesi del ventennio che ha preceduto l’ascesa del triumvirato Federer-Nadal-Djokovic, i temibili Dark Horses. Menzione speciale per il John McEnroe formato 1992.

Stefano Maffei
2 luglio 2022

ROD FROWLEY. L’australiano, con quel baffo un po' così che poteva facilmente esser scambiato per uno dei Bee Gees, si presenta a Wimbledon all’alba del ventinovesimo compleanno (per quei tempi i 30 segnavano già il crepuscolo della carriera) e senza nemmeno un trofeo ATP di singolare in bacheca. Il miglior risultato in una prova dello Slam erano stati i quarti raggiunti a Melbourne nel 1979, dove però all’epoca gran parte dei migliori disertava. Quell’anno a Wimbledon, complice un tabellone favorevole, si issa sino alle semifinali (dopo essersi preso lo scalpo del giovane Tim Mayotte nei quarti) dove cede in tre set lottati al futuro vincitore del torneo John McEnroe: 7-6 6-4 7-5.

CHRIS LEWIS. Primo e unico neozelandese ad arrivare in finale a Wimbledon nell'Era Open. Prima dell’edizione del 1983, Lewis non aveva mai superato il terzo turno di uno Slam: non si sarebbe mai più ripetuto. Quell’estate di 39 anni fa compie un percorso epico che lo conduce al cospetto di John McEnroe. Vince tre battaglie in 5 set con gli americani Steve Denton (n.9 del seeding) al primo turno e Mike Bauer al terzo, e con Kevin Curren al termine di una semifinale fiume conclusasi 8-6 al quinto, passando per un durissimo quarto di finale con Tim Mayotte. In finale non aveva né il tennis, né forse la benzina per reggere il confronto con Superbrat. Finisce con un 6-2 6-2 6-2 senza gloria.

BORIS BECKER. È il 1985 quando un 17enne di belle speranze nato a Leimen, Germania, irrompe sull’erba più famosa del mondo. Becker ha appena vinto il suo primo titolo ATP al Queen’s, perciò è un osservato speciale, ma nessuno sembra credere davvero in un suo exploit anche in virtù della concorrenza, tra i quali il N.1 del mondo e campione in carica John McEnroe, il due volte vincitore del torneo Jimmy Connors, Ivan Lendl e il semifinalista della passata edizione e grande specialista dei prati Pat Cash. Il cammino del tedesco è subito in salita, cede prima un set al modesto americano Hank Pfister al primo turno, due turni più tardi incontra settima testa di serie, lo svedese Joakim Nystrom, il quale va per ben due volte a servire per il match nel corso del quinto set ma senza successo: il giovane Boris chiude 9-7 dopo oltre 4 ore di gioco. Agli ottavi lo attende un’altra maratona con la testa di serie numero 16, l’americano Tim Mayotte: lo yankee si porta in vantaggio per 2 set a 1 e sul 6-5 Becker al quarto il tedesco frana rovinosamente a terra. Se è vero che la storia si ripete, a Boris devono essersi rimaterializzati i fantasmi dello scorso Wimbledon nel quale sempre contro un americano (allora fu Bill Scanlon al terzo turno), sempre sotto 2 set a 1, ed incredibilmente sempre in vantaggio di un game nel quarto fu vittima di una brutta caduta che gli comportò una distorsione alla caviglia destra e il conseguente abbandono dal torneo. Stessa storia, caviglia diversa. Stavolta è quella sinistra, Becker si rialza e zoppicando si avvia verso la rete mimando palesemente con le mani l’impossibilità a proseguire il match. Ai piedi del net allunga visibilmente la mano per stringerla all’avversario che in quel momento da le spalle alla rete perciò non si rende conto delle intenzioni del tedesco. Secondi, attimi che si riveleranno decisivi non solo per quel match, ma per l’intero torneo e forse per l’intera carriera di Becker. Gettando uno sguardo al suo angolo, il suo staff gli fa cenno di prendersi del tempo e chiamare il Medical Time Out. Becker torna in campo, vince il set al tie-break e piega la resistenza dell’americano al quinto. Il resto, come si suol dire, è storia. Becker lascerà un set anche al francese Leconte, allo svedese Jarryd ed in finale al sudafricano Kevin Curren (che aveva lasciato rispettivamente 8 e 5 games a McEnroe e Connors nei quarti e in semi), senza però più dare l’impressione di poter perdere. Diventerà il più giovane vincitore di Wimbledon (record ad oggi ancora imbattuto).

L’immagine di Ivanisevic incredulo che alza la coppa rimane forse una delle più iconiche che si possa sfogliare nel prestigioso album dell’All England Club.
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Andrei Ohlovskiy beffa il n.1 Jim Courier nel 1992. Il suo percorso sarebbe terminato contro John McEnroe

PETER DOOHAN. Il compianto australiano è divenuto famoso unicamente per l’impresa compiuta nel 1987 quando estromise al secondo turno, sull’allora campo n.2 (ribattezzato "Cimitero dei Campioni") il due volte vincitore del torneo e favoritissimo Boris Becker. Doohan si issò poi sino agli ottavi eguagliando il suo miglior risultato ottenuto lo stesso anno nello Slam di casa. Doohan giocava un buon serve & volley ma quel giorno non sbagliò praticamente nulla, colto da un’ispirazione che non avrebbe mai più itrovato. Becker dal canto suo, veniva dalla vittoria al Queen’s e niente faceva presagire una sua prematura dipartita. Forse entrò in campo con un deficit d’attenzione, tant’è che giocò una partita opaca e dimessa, tra lo stupore generale.

JOHN MCENROE e ANDREI OLHOVSKIY. Accostare l’appellativo Dark Horse ad una leggenda del calibro di John McEnroe può sembrare bizzarro, ma la verità è che, al momento di giocarsi l’ultimo Wimbledon della carriera nel 1992, ai nastri di partenza l’americano rappresentava proprio questo. The Genius perde il primo set del suo torneo con il terraiolo brasiliano Luis Mattar ed al secondo turno incontra un altro ex campione di Wimbledon, Pat Cash, in una sfida dal forte sapore vintage: John la spunta al quinto dopo esser stato sotto per 2 set a 1. Al terzo turno estromette il connazionale e tds n.16 (nonché semifinalista in carica) David Wheaton in tre soli set, mentre agli ottavi batte il qualificato russo Andrei Ohlovskiy, carnefice al turno precedente del n.1 del mondo Jim Courier che era in piena corsa per un clamoroso Grande Slam (avendo vinto sia in Australia che a Parigi). Il russo era un buon doppista, ma contro Big Jim giocò realmente la partita della vita asfissiandolo col serve & volley e non giocando mai una palla uguale (da ottimo scacchista quale era anche nella vita reale). Poté poco contro McEnroe: i due giocavano a specchio, ma John faceva tutto decisamente meglio. Nei quarti il sette volte vincitore Slam si prese lo scalpo del n.9 Guy Forget, ma la sua cavalcata si interruppe bruscamente in semifinale davanti ad André Agassi, col quale si era allenato durante tutto il torneo fornendogli anche preziosi consigli per l’adattabilità all’erba. Agassi lo cancellò con un netto 6-3 6-4 6-2, ma Super Mac si consolò con una vittoria epica in doppio: in coppia con Stich batterono Reneberg e Grabb 19-17 al quinto set.

NEVILLE GODWIN. Il sudafricano, classe 1975, è più famoso forse per esser stato allenatore dell’ex vincitore delle Next Gen Finals del 2017 Hyeon Chung, che per i suoi meriti come giocatore. Semplicemente Godwin è stato l’uomo giusto al momento giusto, e quel momento era il 24 giugno del 1996. Al terzo turno affronta Boris Becker, dato favoritissimo in quell’edizione assieme all’americano Pete Sampras, quando nel primo set, sul primo punto del tie-break Boris risponde di dritto ad un servizio tutt’altro che irresistibile del sudafricano. Crack! Polso in frantumi e addio Wimbledon. Godwin perderà nel disinteresse generale al turno successivo dove racimolerà appena 7 games in tre set con un altro tedesco di blasone decisamente inferiore, Alex Radulescu.

DAVIDE SANGUINETTI. Nel 1998 è il nostro Davide Sanguinetti a rendersi protagonista di un bel percorso che lo ha portato sino ai quarti di finale, 19 anni dopo i quarti raggiunti da Adriano Panatta. Vince una gran partita al terzo turno contro il russo Vladimir Volchkov, nella quale rimonta uno svantaggio di 2 set a 1. Purtroppo non può nulla nei quarti contro il vincitore del 1996, Richard Krajicek, che lo sconfigge in una partita dai parziali crescenti: 6-2 6-3 6-4.

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Vladimir Voltchkov non avrebbe mai ottenuto risultati anche solo paragonabili alla semifinale raggiunta a Wimbledon nel 2000

L'incredibile percorso di Goran Ivanisevic a Wimbledon 2001

ALEXANDER POPP e VLADIMIR VOLCHKOV. Il 2000 è l’anno delle due meteore, il tedesco Alexander Popp capace di arrivare ai quarti (e bissarli clamorosamente tre anni dopo) e il bielorusso Vladimir Volchkov, addirittura in grado di issarsi in semifinale al cospetto di Sua Maestà Sampras. Entrambi possono fregiarsi dell’onore di aver perso dai finalisti del torneo. Pensare che il tedesco esordì nel torneo perdendo per 6-0 il primo set contro Ronald Agenor che, per parafrasare Gianni Clerici, “Aveva un rapporto con l’erba di Wimbledon come io ce l’ho con l’insalata verde”. Il suo torneo è cominciato dopo quel primo set. Da lì ha messo in fila prima l’americano, poi Chang battuto in 5 set, quindi il fresco vincitore di Parigi Guga Kuerten, quindi Marc Rosset (nuovamente al quinto) prima di perdere dal futuro finalista Pat Rafter. Volchkov invece, proveniente dalle qualificazioni, batté al primo turno Juan Ignacio Chela in 5 set, sempre in cinque piegò la testadi serie n.5 Cedric Pioline, quindi diede tre set a zero a Wayne Ferreira negli ottavi, ma in semifinale non poté nulla contro Pistol Pete.

GORAN IVANISEVIC. Chiudiamo la nostra rassegna con quella che forse è e rimarrà per sempre l’impresa più grande nella storia del torneo londinese. Ivanisevic, sul viale del ritiro, ha bisogno di una wild card per essere ammesso in tabellone, visto che era franato al numero 125. Il croato, tre volte finalista, del torneo comincia la sua avventura a fari spentissimi, giocando in modo piuttosto ilare e dispensando sorrisi al pubblico e all’avversario, come si fa quando ci si approccia all’ultimo torneo della carriera come una dignitosa passerella finale. Al secondo turno batte Carlos Moya (non proprio un erbivoro, ma pur sempre ventesima testa di serie) in 4 set (dopo aver perso il primo al tie-break). Al turno successivo incontra l’emergente bombardiere Andy Roddick: prevale nuovamente in 4 set e al termine del match “inaugura” quello che diventerà un cliché a conclusione dei suoi match: si strappa la maglietta e si libera in un ruggito di gioia. Agli ottavi è il turno del britannico Rusedski. Prima del match, quando gli viene chiesto un pronostico, Ivanisevic si sbilancia in una delle sue bizzarre previsioni: “È semplice, teniamo il servizio entrambi sino al tie-break, poi lui se la fa sotto e vinco io”. Di tie-break ne giocheranno solo uno (quello del primo set) e lo vincerà davvero il croato che chiuderà poi la pratica in 3. Ai quarti lo attende il n.4 Marat Safin. In molti cominciano a temere che sia la fine della corsa, ma Cavallo Pazzo stupisce ancora tutti piegando la resistenza del russo per 7-6 al quarto. In semifinale c’è il beniamino di casa Tim Henman, alla sua terza semifinale ma senza lo spettro di Pete Sampras a sbarrargli la strada. Ivanisevic comincia a crederci davvero e inizia il match concentratissimo portandolo a casa per 7-5. Il secondo se lo aggiudica l’inglese al tie-break e iniziano a svegliarsi i primi demoni nella mente del croato, che di schianto e in un amen cede a zero il terzo set. Sul 3-2 Ivanisevic nel quarto (on serve) la pioggia giunge propizia e il match viene posticipato al giorno dopo. Il tennista di Spalato ha l’occasione di riordinare le idee e quando si riaprono le danze è nuovamente on fire. Vince il quarto 7-6 e chiude 6-3 al quinto. In finale c’è Pat Rafter, autore di un’epica vittoria in semifinale su André Agassi per 8-6 al quinto. La finale viene giocata di lunedì, in un clima da stadio per la rivendita dei biglietti che ha premiato un pubblico molto diverso rispetto a quello che siamo abituati a vedere a Londra, in un tripudio di bandiere croate e australiane. Ivanisevic la spunta 9-7 al quinto, non prima di essersi trovato per due volte a 2 punti dalla sconfitta, e non prima di aver dilapidato due de quattro match point a disposizione con altrettanti doppi falli, facendo rischiare un secondo infarto al padre che lo seguiva in tribuna. L’immagine di Ivanisevic incredulo che alza la coppa rimane forse una delle più iconiche che si possa sfogliare nel prestigioso album dell’All England Club.