The Club: Bola Padel Roma
LA STORIA

La Madonna Sistina di Felix Mantilla

Vent'anni fa, gli Internazionali d'Italia vivevano il loro epilogo più soprendente: il n.47 Felix Mantilla scippava il titolo a Roger Federer. Non si faceva la barba per scommessa, suonava la chitarra in albergo e durante la premiazione indossò un'improbabile t-shirt rinascimentale. Tre anni dopo si sarebbe salvato da un pericoloso tumore. 

Riccardo Bisti
9 maggio 2023

“Hanno dato una wild card a Mantilla”. I telefoni cellulari esistevano già, ma nella primavera del 1997 erano ancora roba per pochi. Si comunicava soprattutto con il telefono fisso e non c'era troppo entusiasmo, nella voce di Luciano, incordatore del torneo ATP di Bologna. Si giocava subito dopo il Roland Garros e, sebbene la presenza di un top-20 fosse gradita, il nome non accendeva chissà quali fantasie. Tipico pedalatore di estrazione spagnola, esponente del trittico sudore-fatica-volontà. Poi successe che il Roland Garros fosse vinto da un giovane brasiliano coi capelli a zazzera, e che lo stesso fosse iscritto al torneo di Bologna. “Figurarsi se viene”, sussurravano gli organizzatori. Invece Gustavo Kuerten mostrò grande professionalità e si recò al Cierrebì. Giunse in finale, ma la ragnatela di Felix Mantilla Botella lo incatenò alla distanza. Il catalano aveva rovinato una bella storia, ma l'avrebbe fatta ancora più grossa sei anni dopo. Nonostante quattro finali, Roger Federer non ha mai vinto gli Internazionali BNL d'Italia. Tutti ricordano i due matchpoint bruciati nel 2006 contro Rafael Nadal, che poi lo avrebbe tenuto a distanza anche nel 2013 e nel 2015. Ma oggi cade il ventennale di una storia che è sempre stata raccontata dalla prospettiva di Federer. Una grande occasione buttata contro un giocatore un po' anonimo. “La popolarità non mi interessa, anche perchè a volte sono timido – diceva Mantilla – infatti non ho grandi contratti perché non appaio in televisione, tengo alla mia vita privata”. Eppure la storia c'era eccome, e qualche anno dopo avrebbe rischiato (per fortuna soltanto rischiato) una drammatica appendice. Dopo la semifinale-maratona contro Evgeny Kafelnikov (il russo aveva servito per il match e gliel'aveva un po' regalata), chiesero a Mantilla qualche canzone avrebbe voluto ascoltare al suo ingresso in campo per la finale.

“La colonna sonora del Gladiatore” rispose. “Mi sento un po' come lui dentro il Colosseo. Poi ho la barba... ok, non ho la stessa faccia di Russel Crowe, ma ho la sensazione che il pubblico ami quello che faccio: correre, combattere, metterci il cuore”. Il giorno dopo avrebbe impiegato due ore e quaranta minuti per dare tre set a zero a un Federer ancora acerbo, incapace di trovare reali contromisure alla strategia ossessiva di Mantilla: fargli giocare decine di rovesci, possibilmente sopra l'altezza della spalla. “Fa sempre la stessa cosa, il suo tennis è un po' noioso” disse Federer, vittima di umana frustrazione. 7-5 6-2 7-6, con il punto-simbolo sull'8-8 del tie-break: Mantilla recuperò anche l'impossibile, costringendo Federer a giocare uno, due, tre colpi in più. Fino a un facile smash, sparato inspiegabilmente largo di un metro. Pochi minuti dopo, Felix si commuoveva durante la premiazione mentre indossava un'improbabile t-shirt con scritto “Raffaello” e raffigurante un dettaglio del famossimo dipinto La Madonna Sistina, in cui si vedono i due cherubini che guardano verso l'alto. “Il venerdì prima del torneo mi era stata regalata dalla mia ragazza per festeggiare i tre anni di fidanzamento. Non è potuta venire, ma le ho promesso che avrei indossato questa t-shirt a prescindere dal risultato”.

Lo sapevi che...

Cinque anni prima, Mantilla era stato protagonista di un curioso episodio proprio a Roma. Con i capelli tinti di biondo (frutto di una scommessa perduta con Luis Lobo), al secondo turno affrontò Thomas Muster. A un cambio di campo, il catalano stava tranquillamente mangiando la sua banana quando l'austriaco gli passò davanti, gliela strappò via di mano e prese a mangiarla al suo posto. Decisamente risentito, Mantilla perse la partita e non gli strinse la mano. Qualche settimana dopo si sarebbe preso la rivincita, battendolo in quattro set al Roland Garros. 

La storica vittoria di Felix Mantilla agli Internazionali d'Italia

Un piccolo gesto che racconta un personaggio stritolato – almeno in termini di popolaità – dai frontmen dell'Armada Spagnola di allora: Carlos Moyà, Alex Corretja, Juan Carlos Ferrero, Albert Costa... senza il successo a Roma, probabilmente, lo ricorderebbero in pochi. E invece oggi si può raccontare l'impresa di un uomo che oggi ha 48 anni, allena Roberto Bautista Agut e può raccontare la sua storia grazie alla bravura di un dermatologo. Figlio di due insegnanti, Felix Mantilla ha iniziato a giocare relativamente tardi: aveva 10 anni quando tirò i primi colpi presso il Club Deportivo Trebol di Barcellona. Nel 1992 ha contribuito al successo della Spagna in Sunshine Cup (il Campionato Europeo a squadre Under 18), in coppia con Albert Costa (che all'epoca si faceva ancora chiamare Alberto). Qualche anno dopo sarebbe diventato un valido professionista: alcuni titoli ATP, buoni piazzamenti sulla terra battuta e qualche exploit anche sul cemento. Ma pagava un tennis noioso, maledettamente noioso. Difficile dare torto a Federer. “Non ho il servizio di Sampras, le volèe di Rafter o il talento di Agassi. E allora devo essere concentrato su ogni punto ed essere forte di testa”. Grazie alla sua forza mentale aveva raggiunto i quarti in Australia (1997) e la semifinale al Roland Garros (1998), stoppato sempre dal belloccio Moyà, come se per quelli come lui ci fosse un limite invalicabile. Ha vinto a Barcellona, si è tolto lo sfizio di battere due numeri 1 ATP sul cemento (Sampras a Indian Wells 1999, Hewitt a Toronto nel 2002), è salito al numero 10 del mondo... Ma era l'eterno piazzato, il tennista che nessuno considerava. Nemmeno a Bologna gioivano per la sua presenza. Nel 2003 era già in fase calante, anche perché due anni prima si era sottoposto a un delicato intervento alla spalla. Si presentò a Roma da numero 47 e in crisi di fiducia.

Un paio di settimane prima aveva perso a Barcellona contro Kuerten e andò dal suo coach: “Basta, finché non vinco un torneo non mi faccio la barba”. Aveva vinto l'ultimo un anno e mezzo prima, a Palermo, dunque c'erano ottime ragioni per diventare un antesignano di George Bastl o Benoit Paire. A Roma si presentò con una piccola chitarra e strimpellava qualche nota quando, alla sera, si ritrovava in hotel. Con questa routine ha fatto fuori Nalbandian, Fish, lo stesso Costa e Ljubicic prima di rimontare Kafelnikov in semifinale. “In quella che è stata la partita più difficile della settimana”. I suoi genitori e il preparatore atletico avevano un piede sulla scaletta dell'aereo per venire a sostenerlo in finale, ma lui li bloccò. Non voleva che lo stato di grazia, anzi, di pace, si interrompesse. L'11 maggio 2003 era un Foro Italico diverso. Il Campo Centrale era stato ribattezzato Stadio dei Crampi da Gianni Clerici per la sua struttura in legno lamellare che alimentava il caldo e abbrustoliva gli spettatori. Era la prima edizione post-licenziamento di Adriano Panatta, il pubblico era quello che era e il title sponsor del torneo era Telecom Italia. Il torneo era trasmesso da Stream TV e – per la parte in chiaro – da La7. Un altro mondo, un'altra realtà. Accompagnato da Peter Lundgren e la futura moglie Mirka, Federer mostrò tracce di quella che sarebbe stata una debolezza negli anni a venire: la scarsa concretezza sulle palle break. Ne avrebbe trasfortmate soltanto tre su diciassette, sciupando diverse occasioni nel primo set. Avanti 2-0 nel secondo, avrebbe perso otto game di fila. Un'impennata d'orgoglio avrebbe regalato un bel terzo set, nel quale Federer ha avuto ulteriori chance, ma ha finito col perdere.

Felix Mantilla ha creato una fondazione benefica per sensibilizzare sui tumori alla pelle

Leggi anche: From Zero to Hero

Oggi Felix Mantilla ha 48 anni e fa (anche) l'allenatore

Gli applausi di delusione del pubblico dopo l'ultimo punto furono lo specchio fedele dell'atmosfera. La gente voleva assistere al trionfo del rampante svizzero, non certo alla vittoria dell'ennesimo pallettaro. Sarebbe stato l'ultimo titolo di Mantilla, incapace di restare sui livelli che pure aveva frequentato per almeno 6-7 anni, bruciandosi di fatica sotto il sole. Esagerando, perché una volta si procurò un'insolazione in Australia. Da allora, il suo dermatologo Joseph Malvey gli disse di stare particolarmente attento al sole e di farsi controllare ogni tanto. Nel novembre 2005, in occasione di una visita di routine, notò un neo sulla schiena. “Mi disse che non gli piaceva, che sarebbe stato meglio fare una biopsia”. Esito: melanoma alla pelle, uno dei tumori più aggressivi e mortali. “Quando telefonai a casa per dirlo, dicendo a mia sorella di radunare tutta la famiglia, si emozionò perché pensava che dovessi comunicare il matrimonio o la paternità”. Mantilla non si è abbattuto, ed è stato premiato. “In occasione della seconda biopsia, sono andato con tutta la mia famiglia. Avevamo appuntamento alle 18, ma non veniva nessuno. 18.15, 18.30, 19... potete immaginare l'angoscia. Per fotuna arrivò la buona notizia: lo avevano preso in tempo, la diagnosi precoce mi aveva salvato la vita. Malvey mi dssse che scoprirlo sei mesi dopo avrebbe potuto essere fatale”. Non furono necessarie chemioterapia e radioterapia, anche se il catalano s è sottoposto a due interventi che hanno neutralizzato il melanoma e un possibile aggravamento. “Ho avuto la fortuna di conoscere Joseph, un luminare del settore: non è facile diagnosticare così presto un melanoma”. Mantilla ha provato a rientrare nel 2007, ma il tentativo è durato qualche mese, giusto il tempo di raggiungere una finale al Challenger di Reggio Emilia.

Anche lì, come a Bologna dieci anni prima, aveva avuto bisogno di una wild card. “Il melanoma è stato il motivo principale per cui mi sono ritirato – ha ammesso – avevo paura di scendere in campo ed espormi al sole. Spero che la mia storia faccia capire che lo sport all'aperto, senza le dovute protezioni, è molto pericoloso”. E pensare che proprio lui aveva riproposto il cappellino da Legione Straniera reso noto da Ivan Lendl, almeno dieci anni prima. Come si dice in questi casi, Mantilla è rimasto nell'ambiente. Nel 2011 ha creato una sua fondazione per sensibilizzare proprio sui tumori alla pelle, mentre in campo ha lavorato con Alexander Dolgopolov, Lucas Pouille e ha collaborato con la federtennis australiana. Da quest'anno è al fianco di Roberto Bautista, ma soprattutto è il direttore commerciale di Foxtenn, il sistema di verifica elettronica dei punti che dal 2025 sarà ancora più importante con l'abolizione dei giudici di linea nel circuito ATP. “Ed è l'unico a essere omologato per l'utilizzo sulla terra battuta”. Padre di tre figli (due femmine e un maschio), vive un paradosso: ha scritto una delle pagine più curiose degli Internazionali, ma se gli chiedete qual è la vittoria di cui va più orgoglioso, vi sorprenderà: “Un incontro di Coppa Davis in Nuova Zelanda. Era il mio esordio, in uno spareggio per non retrocedere. Ho giocato infortunato, a un certo punto la schiena mi faceva troppo male. Il mio avversario (Mark Nielsen, ndr) ha rimontato e io provavo vergogna perché non potevo servire, rispondere, giocare... Lui è arrivato a servire per il match, mentre la mia prima palla andava a 80 km/h. Però ho recuperato e vinto in cinque set. Il capitano Manolo Santana mi disse che non avrebbe mai giocato con un infortunio del genere, infatti l'ho pagata con un periodo di inattività, ma ne è valsa la pena. Abbiamo vinto, e l'anno dopo la Spagna ha conquistato la sua prima Davis”. Si sa, i Gladiatori sono fatti così.