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IL CASO

Cervelli in fuga!

Non solo tennisti: negli ultimi anni, l'Italia ha prodotto anche ottimi allenatori. Molti di loro, tuttavia, si dedicano a giocatori stranieri. Da Castellani e Pistolesi fino a Sanguinetti, Cipolla e Donati, siamo un' eccellenza anche nel coaching. I giocatori italiani si accorgeranno di loro?

Riccardo Bisti
3 aprile 2024

Il dibattito è infinito e non troverà mai risposta certa. Il ruolo di coach è scienza o arte? Bisogna seguire determinati protocolli e restare sempre aggiornati, oppure è meglio affidarsi all'estro e all'istinto, entrando in connessione con il giocatore? Una volta facemmo la stessa domanda a un medico chirurgo, e la risposta ci stupì. “80% arte, 20% scienza”. Se esiste un'idea del genere in un mondo complesso come la medicina, ci si domanda come possa essere nello sport, laddove il coach deve gestire mille aspetti nella vita di un giocatore, senza limitarsi a suggerire la corretta impugnatura del dritto. Come (quasi) sempre, la risposta sta nel mezzo. È giusto che ci siano raduni, simposi, corsi di aggiornamento e una generale ricerca della scientificità (senza cadere nel business fine a se stesso, s'intende), però una grande preparazione teorica – anche la migliore possibile – non potrà mai sostituire le esperienze sul campo. Al massimo le può affiancare. In Italia siamo fortunati perché abbiamo allenatori di alto livello e di qualsiasi estrazione. Oggi il nostro frontman è Simone Vagnozzi, ormai noto a livello internazionale grazie ai complimenti in mondovisione di Darren Cahill, con il quale gestisce il talento di Jannik Sinner.

Ma non è stata una sorpresa, visto che aveva già dimostrato enormi qualità nelle precedenti esperienze. Dopo aver smesso di giocare a 31 anni, si è lanciato nel coaching e aveva già estratto il meglio da Marco Cecchinato (la clamorosa semifinale al Roland Garros) e da Stefano Travaglia, che con lui ha ottenuto i migliori risultati. Anche volendo, non avrebbe avuto il tempo per fare chissà quanta teoria. “Quando giocava , si vedeva che avrebbe fatto il coachaveva sentenziato il coetaneo Flavio Cipolla, altro protagonista di questa storia. Nella stessa occasione, il diretto interessato diceva: “Le esperienze avute da giocatori sono importanti. Man mano che facciamo il nostro lavoro tentiamo di aggiornarci e vedere come si allenano gli altri, poi valutiamo cosa è meglio per i nostri allievi. Già da giocatore mi piaceva vedere le partite, ho sempre pensato di fare questo lavoro. Ero quasi sicuro di riuscire a rendere meglio da allenatore che da giocatore”. Detto, fatto. Senza particolari ricerche, formazione costante, eccetera. E se la chiamata di Sinner è stata un colpo di fortuna, Vagnozzi se l'era meritata a suon di risultati. È quello che sta accadendo a Flavio Cipolla, l'altro top-coach italiano del momento. Se ne parla poco: è il destino dei coach italiani che allenano giocatori stranieri.

(Flavio Cipolla by Adelchi Fioriti. Le foto di Sanguinetti sono di Daniele Combi / MEF Tennis Events)

«Flavio Cipolla conosce perfettamente la psicologia e capisce al volo il mio stato d'animo. Non ho bisogno di dare spiegazioni, mi basta dire che le cose vanno in un certo modo e lo comprende perfettamente» 
Daria Kasatkina

Spesso fanno un grande lavoro, ma dalle nostre parti non arriva granché. Però la sua avventura con Daria Kasatkina è incredibilmente affascinante. Superato l'anno di collaborazione, il bilancio è positivo. Sotto la sua guida, la russa ha raggiunto tre finali (due quest'anno, Adelaide e Abu Dhabi), nonché gli ottavi a Parigi e New York. È rimasta nell'orbita delle top-10 ed è un bel risultato per un allenatore che non aveva mai seguito una donna, sia pure con robusti precedenti nel circuito ATP: Alessandro Giannessi, Gianluca Mager (portato ai suoi migliori risultati) e Vasek Pospisil. La scorsa estate ha detto che con la Kasatkina non hanno fissato obiettivi di classifica, quanto di gioco e miglioramento. È la via per costruire un percorso interessante e magari azzeccare l'exploit che possa definitivamente consacrarlo, un po' come riuscì a Vagnozzi con Cecchinato. Cipolla ha preso il posto di un tecnico di credibilità ed esperienza come Carlos Martinez (oggi arruolato da Simona Halep) e le parole della Kasatkina sanno di promozione. “Una separazione lascia sempre delle conseguenze, ma con Carlos è andata bene – ha detto la russa – con Flavio si è creata una situazione interessante. Per fortuna era disponibile quando l'abbiamo contattato (tramite il suo manager John Morris, ndr) . Abbiamo iniziato con una prova a Doha, si è creata una buona connessione e così abbiamo deciso di proseguire. Ne sono grata perché non sempre è così”.

Quando le hanno chiesto quali siano le principali qualità di Cipolla, si è soffermata sull'aspetto umano. “Conosce perfettamente la psicologia e capisce al volo il mio stato d'animo. Non ho bisogno di dare spiegazioni, mi basta dire che le cose vanno in un certo modo e lo comprende perfettamente. Inoltre mi dà la libertà di prendere decisioni, che allo stesso tempo significa avere più responsabilità. I precedenti allenatori decidevano molto: allenamenti, programmazione e molto altro. Adesso gestisco di più in prima persona ed è positivo, perché a un certo punto devi crescere. Se non ti assumi responsabilità nella vita, poi non lo fai neanche in campo. Per questo è giusto farlo: ammetto che sia difficile, ma vedo progressi”. I casi di Vagnozzi e Cipolla raccontano due cose: in primis, non esiste una via maestra per diventare ottimi coach. Non bisogna seguire per forza un percorso. Se hai l'arte, puoi arrivare anche senza troppa scienza. In secundis, raccontano come sia un momento felice non solo a livello di giocatori, ma anche di tecnici. Il caso più recente può essere altrettanto clamoroso: classe 1995, Matteo Donati è stato un'enorme promessa. È arrivato al n.159 ATP ma si è bloccato a causa degli infortuni. Ha intrapreso silenziosamente l'attività di coach quando era formalmente in attività, al seguito dello svizzero Manfredi Graziani, poi è arrivata la chiamata della coetanea Yulia Putintseva, che conosceva sin dai tempi junior.

Il post con cui Matteo Donati annuncia il ritiro. Dopo averlo letto, Yulia Putintseva gli ha chiesto di allenarla

“Avevo letto su Instagram che si era ritirato per via degli infortuni, allora ho pensato di contattarlo – dice la kazaka – sono molto felice che Matteo sia al mio fianco e cerchi di farmi migliorare su tutto. Quando ci alleniamo siamo sempre molto competitivi. È buono perché a volte gli allenamenti sono noiosi perché si fa sempre la stessa cosa, quindi cerchiamo di rendere le cose più interessanti”. I risultati sono arrivati alla svelta, non tanto perché l'ha presa al n.70 e oggi è 52, ma perché tra Indian Wells e Miami sono arrivate tre vittorie contro altrettante top-20 e a Miami ha ritrovato i quarti in un WTA 1000 dopo due anni. Ad appena 29 anni e sostanzialmente senza esperienza, l'alessandrino si è messo nella giusta posizione per diventare un ottimo tecnico. In fondo, l'Italia vanta una grande tradizione con allenatori di livello impegnati con giocatori stranieri. Il pioniere è stato Alberto Castellani, al fianco di tantissimi giocatori di livello (Tipsarevic, Karlovic, Rosset, Alami, Arazi e tanti altri), poi è arrivato Claudio Pistolesi. Oltre a Sanguinetti e Bolelli ha fatto ottime cose con Soderling, Berrer, Suzuki e tanti altri. Oggi si è stabilito negli Stati Uniti e continua a lavorare con la sua Claudio Pistolesi Enterprise, che ha portato 32 ragazzi a ottenere una borsa di studio nel college americano (15 di loro si sono già laureati e hanno trovato lavoro).

Uno dei suoi principali allievi, Davide Sanguinetti, sta percorrendo una strada simile e – se vogliamo – ancora più estrema. Ormai coach da diversi anni, non ha ancora avuto la possibilità di allenare tennisti italiani. Lo abbiamo visto all'angolo di giapponesi (Go Soeda e Shintaro Mochizuki), cinesi (Di Wu), americani (Ryan Harrison) e neozelandesi (Michael Venus), mentre adesso sta contribuendo alla rinascita del talentuoso Brandon Nakashima, penultimo vincitore delle Next Gen Finals. Senza dimenticare Federico Ricci, nativo di Parma, cresciuto a Milano ma formatosi presso l'accademia di Chris Evert a Boca Raton. Una decina d'anni fa ha avuto l'occasione di spostarsi in Finlandia su spinta di Jarkko Nieminen. Risultato? Tra i ragazzi dell'accademia c'era un certo Emil Ruusuvuori, oggi top-50 ATP e artefice dell'impressionante crescita del movimento finlandese, culminata con la semifinale in Coppa Davis. A seguirlo c'è proprio Ricci, che a suon di lavoro, esperienze, e rischi d'impresa si è costruito fama e credibilità. Insomma, non siamo un'eccellenza soltanto con i giocatori ma anche con i coach. Se queste professionalità, un giorno, dovessero allenare giocatori italiani... sarebbe ancora meglio. Giusto, no?