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IL FILM

McEnroe e la folle ricerca della perfezione

Sky Arte ha appena ritrasmesso "John McEnroe: l’empire de la perfection", docu-film molto particolare sulla figura dell'americano. Usando vecchi nastri che lo ritraggono a Parigi, il regista ha fotografato il suo personaggio da una prospettiva nuova, diversa, originale. Per arrivare una diagnosi: più che rozzo e attaccabrighe, Mac era semplicemente un perfezionista patologico. Anche per questo, forse, ha perso quella storica finale contro Lendl. 

Federico Ferrero
11 novembre 2020

McEnroe «liked it», il film lo ha guardato e gli è piaciuto, ed è una parola strana da usare per il dolore sportivo tra i più laceranti nella storia tennistica americana, con il mancato vincitore che ammette di avere ancora gli incubi a 35 anni da quel pomeriggio di giugno e di infinito rimpianto. Era la finale del 1984 del Roland Garros. Il talento paradisiaco di McGenius aveva stregato anche la superficie più lontana dal suo tennis di attacchi, tocchi felpati e trovate balistiche al di là del concepibile. In tutto l’anno tennistico avrebbe perso 3 sole partite su 85. Ivan Lendl, il perdente designato nelle finali Slam (zero su quattro, fino a quel giorno) era la vittima perfetta. Il pubblico esigente di Parigi, stanco e scocciato da anni di tic-toc di Borg, Vilas e Wilander, stava per incoronare il suo re, il più geniale e fornito di arte tecnica dell’era moderna. Ed era disposto a perdonargli pure la mala educazione e gli scatti d’ira, così invisi alla gente che frequenta il tennis da quelle parti.

Julien Faraut aveva sei anni, quando McEnroe giocò quella finale. Laureato in storia e cinema nel 2000, l’anno successivo entrò con uno stage all’Insep, ente statale cui manca un omologo italiano (Institut national du sport, de l'expertise et de la performance) e, da lì, non è più uscito. Negli archivi dell’istituto, qualche anno fa, gli capitò di trovare una parete di scaffali piena di “pizze” con bobine da 16 millimetri. Erano scarti di produzione. Le etichette recitavano “colpi di McEnroe”, “litigi di McEnroe”, “inquadrature a mezzo busto di McEnroe” e così via. Era ciò che restava del lavoro di Gil de Kermadec, anonimo tennista e celebre studioso dello sport; de Kermadec aveva preso, dagli anni Sessanta, a filmare la gestualità dei campioni durante il Roland Garros, a scopi meramente didattici. Insomma, era convinto che i movimenti dei grandi si potessero analizzare, scomporre e riprodurre, per insegnare ai giovani francesi la tecnica perfetta. Tra tutti, si era innamorato – come non capirlo – del gioco di quell’impertinente ragazzaccio del Queen’s di New York. E su di lui puntò sempre più ossessivamente le macchine da presa: tanto che, nel 1985, gli avrebbe dedicato un lungometraggio apposito. Presto si rese conto, però, che le cose non stavano come pensava: il servizio di McEnroe lo si poteva sì filmare e spezzettare in migliaia di fotogrammi al rallentatore, e pure trasformare in un primitivo modellino in 3D per misurare di quanto il polso ruotasse o la schiena si inarcasse. Ma quel movimento conteneva in sé qualcosa di non racchiudibile in una formula, un esprit indefinibile. Di più: tutto il tennis di McEnroe, tutto ciò che capitava con McEnroe in campo, era un inno all’antiscientifico e all’unicità dell’istinto, del non catturabile: un colpo non somigliava mai all’altro, uno scambio a quello successivo, i rovesci che tirava erano pezzi unici e le sue volée venivano reinventate ogni volta, così come le smorzate a tradimento e quegli attacchi di controbalzo, in barba a tutti gli insegnamenti sul trasferimento del peso del corpo e sull’equilibrio nell’impatto.

Sicché Faraut scoprì per caso, accompagnando un anziano de Kermadec in visita all’archivio Insep, quel materiale che sarebbe dovuto finire nella spazzatura. Cominciò a metterlo insieme, a catalogarlo, a unire spanne di pellicola con lo scotch. Il vecchio cineasta dello sport aveva, infatti, ottenuto di filmare da tutte le angolazioni del campo i match di McEnroe, senza alcun interesse per il risultato: a lui importava solo provare a catturare la formula del genio, anzi, «filmare la realtà», come teorizzavano i registi della Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard in testa («Il cinema mente, lo sport no»). Ne risultarono chilometri di pellicola che racchiudevano la formula e l’espressione di un fenomeno. Ma de Kermadec stesso, forse, non era pienamente padrone di tutto quanto aveva documentato. Morì nel 2011, ampiamente ottuagenario, con la consapevolezza che non esiste la realtà oggettiva, e che il solo filmarla e stringerla in una pellicola è già un intervento che la modifica. In alcuni spezzoni, per esempio, si può osservare il protagonista che si lamenta perché nota teleobiettivi dappertutto, puntati contro di lui. Effettivamente, de Kermadec rifiutò sempre l’offerta di usare le telecamere della televisione, pur abbondanti, perché lui voleva in campo le sue cineprese 16 millimetri, quelle che si usavano per il cinema, sistemate dove voleva lui. Aggeggi che facevano rumore, e quel ronzio indispettiva l’udito di Johnny Mac. Addirittura, per una troupe aveva ottenuto l’autorizzazione di riprendere dall’alto, portandola in cielo con un braccio meccanico. Alzando gli occhi al cielo per servire, a un certo punto, McGenius aveva scorto anche quell’ennesimo occhio meccanico, che suscitò ovviamente la sua collera: «Ehi, sono un tennista, qui non siamo all’Actors’ Studio!»

McEnroe non insultava arbitri e giudici di linea perché rozzo e attaccabrighe (rozzo invero non lo era, attaccabrighe fuori dal tennis non risulta più del normale) ma perché la sua emotività e la sua frustrazione esplodevano di continuo.
Il trailer dello splendido lavoro di Julien Faraut

Raccontare McEnroe, L’impero della perfezione è più complicato che guardarlo. Si può dire quello che non è: non è un docu-film sulla carriera di McEnroe, né sul Roland Garros 1984, né su quella partita maledetta. Eppure, l’ultimo quarto del film è dedicato ai cinque set di costruzione e distruzione del sogno di trionfare a Parigi, una sconfitta che lasciò una ferita aperta nella vita dello statunitense e in tutti coloro che erano stregati dalla sua arte. Piuttosto, è uno sguardo su un genio perfezionista, come perfezionista era lo stesso de Kermadec, un uomo destinato a fallire nel suo progetto di catturare, codificare e canonizzare la verità con uno strumento tecnologico.

Perché ciò che Faraut intuisce, incollando e riguardando pezzi di pellicola, è che McEnroe fosse vittima di una patologia. Lo psicologo dello sport dell’Insep che il regista consulta, mostrandogli immagini in opera del “paziente” McEnroe, non ha dubbi. Il tennista più inventivo e dotato di tèchne della storia era anzitutto un figlio del suo tempo, padre avvocato d’affari in una società competitiva e spietata, mamma presentissima ed esigente. Un ragazzo che tentò di prendere il controllo su di sé e sulla sua vita mirando all’impossibile: la perfezione. Facendone il suo mostro. Forse era convinto di poter raggiungere solo con quella, la pace e la soddisfazione che gli mancavano. Ma la perfezione è un obiettivo irrealistico: ripulire la realtà percepita da tutto ciò che è men che perfetto, è un’impresa folle e disperata perché nulla, nella nostra esistenza, lo è. Come chi strofina compulsivamente la propria casa, ma sa che oltre il visibile c’è il germe invisibile, l’aria in controluce è un ricettacolo di pulviscolo e, per quanto passi e ripassi, spruzzi e risciacqui, non potrà mai raggiungere la disinfezione ultima. McEnroe, semplicemente, non voleva sbagliare mai. Non accettava alcun errore, in uno sport che è un continuo sbagliare, anche per i più grandi. Ogni scambio contiene errori, ogni set, ogni match, ogni torneo: è una lotta disperata e irrazionale, quella contro l’errore, e inevitabilmente perdente.

Ecco che, allora, il minimo disturbo, la minima deviazione dal corso teorico degli eventi (come una palla che esce di un centimetro, o sfiora il nastro e viene deviata, o un signore che starnutisce sugli spalti) diventa l’oggetto della collera di McEnroe. È una lettura affascinante, quella di Faraut, che inciampa in questo tema quasi per caso, ed è anche uno dei passaggi più interessanti di L’impero della perfezione. McEnroe non era solo un viziato e maleducato sbruffone, uno yankee ineducato col dono immeritato di saper giocare il tennis degli dèi. Era una persona insoddisfatta, perennemente a disagio: nel film lo si vede, ripreso durante uno shooting fotografico per il suo sponsor, giocare con il suo ritratto cartonato a dimensioni naturali. Non riesce ad abbozzare un sorriso finto per la foto di gruppo, guarda nel vuoto, si aggira per il campo come fosse perso. Non sa recitare. È l’unico dei presenti all’evento a manifestare insofferenza per quella finzione, fatta dietro pagamento a favore del produttore di racchette: eppure, in campo, era ritenuto l’attore più abile di chiunque altro, nel mettere sul palco le sue sceneggiate. Ciò che molti scambiavano per antipatia o arroganza, probabilmente, era solo una manifestazione del suo perenne malessere. Il giovane fuoriclasse, schiavo del suo genio, sentiva su di sé il peso di tutto ciò che turbava il suo equilibrio, che fosse uno spettatore che tossiva o un giudice di sedia che si permetteva di interferire con il flusso della sua ricerca della perfezione chiamandogli fuori una palla, o facendogli perdere un punto perché il colpo dell’avversario era buono.

McEnroe, in questa ottica effettivamente sottovalutata, non insultava arbitri e giudici di linea perché rozzo e attaccabrighe (rozzo invero non lo era, attaccabrighe fuori dal tennis non risulta più del normale) ma perché la sua emotività e la sua frustrazione esplodevano di continuo, tanto da sopraffare anche la gioia della vittoria e fargli dimenticare ogni regola di convivenza civile. Semplicemente, andava in tilt. Del resto, si cerchino fotografie di McEnroe vincente che ride di gioia e soddisfazione con la coppa in mano, come un Nadal che addenta le orecchie del trofeo: resterete delusi. La maggior parte delle immagini restituisce un giocatore quasi infastidito, con gli occhi persi nel nulla, anche nel momento del trionfo. Come non fosse quello, il senso e lo scopo di ciò che faceva, e sperasse solo di svignarsela alla veloce. Verso la fine del film si scorge McEnroe sbagliare una prima di servizio all’inizio del terzo set, dopo che aveva brutalizzato il povero Lendl nei primi due. Un errore ininfluente in un contesto di dominio soverchiante, quasi comico per la disparità di classe. Eppure, il nostro scuote la testa, schifato e deluso, come se avesse appena buttato via tutta la partita. Non è una posa: in quel momento McEnroe è veramente schifato, perché ha fallito quel servizio. Eppure era un colpo che non avrebbe deciso alcunché, peraltro figlio di una magia della meccanica che, ancora oggi, si studia come un prototipo di Leonardo (de Kermadec provò a codificarlo, Faraut dà conto anche di questo studio) eppure non ci si dà spiegazione compiuta.

L’impero della perfezione è una miniera di riferimenti: prezioso e sconosciuto ai più, tra i tanti, l’aneddoto sul luogo in cui fu costruito lo stadio del Roland Garros. Sullo stesso terreno su cui sorgono i campi costruiti alla fine degli anni Venti del ‘900, viveva un reparto di studi dell’eminente fisiologo Étienne Jules Marey: là, il medico francese scattò le sue prime cronofotografie, sequenze che costituirono l’antenato della immagine in movimento, cioè il film, strumento che permise di scoprire cose – cioè pezzi di realtà - che a occhio nudo sfuggono. A ricordo dell’istituto Marey, per inciso, rimane un bassorilievo ignorato dalla stragrande maggioranza dei tifosi che affollano i viali del Roland Garros, nei pressi del campo 1. Dove non si troverà mai un pannello con il nome di John McEnroe vincitore del singolare maschile. Perché quella partita, la più bella di sempre per due set sul Centrale di Parigi, John McEnroe non si accontentò di dominarla. Pretese di renderla perfetta fino alla fine e, alla fine, l’imperfezione vinse.

Roger Federer durante la finale del Roland Garros 2011, persa in quattro set contro Rafael Nadal
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Julien Faraut racconta genesi e sviluppo del suo film incentrato sulla figura di John McEnroe

Julien Faraut, che cosa è questo film?
«Innanzitutto una fatica. Ci sono voluti tre anni per rimettere insieme col nastro adesivo quelle migliaia di frammenti filmati che erano stati scartati, perché de Kermadec lavorava a un documentario sulla meccanica dei colpi di Mcenroe, non sulle sue intemperanze. Mentre rimettevo tutto insieme nasceva il film o, almeno, il suo germe. Non avevo idee preconfezionate, non è stato facile neanche trovare un produttore perché non potevo spiegare in due parole cosa avessi fatto. Questo lavoro non è un biopic, anzi, io mi sento uno che ha solo lavorato al servizio delle immagini che ha ritrovato. Più le mettevo insieme, più ci vedevo un senso: McEnroe che perdeva il controllo, litigava, se la prendeva col mondo, si disperava, poi tornava a giocare. Creava il tempo, fermava il gioco, lo voleva domare a modo suo. Forse è un film sul paradosso tra realtà e finzione, con un personaggio teatrale che non aveva eguali. Spesso si parla di sport e cinema come di entità distanti e che viaggiano in parallelo ma, qui, le due cose si fondono grazie alle immagini. Vediamo McEnroe sulla sedia e, dietro, il microfonista che allunga l’asta per carpire le sue parole. Diventa una combinazione di sport vero e cinema».

Alla mitica finale del 1984 si arriva solo dopo un’ora, in cui si toccano vari temi. Si parte dalla didattica del tennis e si esplorano le viscere del tennis, dello sport, del cinema.
«Perché il materiale e gli spunti di de Kermadec erano vastissimi. Secondo me la visione restituisce lo stesso percorso che ho fatto io mentre montavo il film. Ci sono digressioni, nella prima ora, è vero: si parla di tecnica del tennis e di psicologia, del tennis professionistico nei vari suoi aspetti. Poi il lavoro vira verso quella partita del 1984, e lì mi sono voluto concentrare sulla drammaticità dell’evento perché la trovavo rappresentativa dell’animo di McEnroe».

Anche se non è un film dedicato a Parigi ‘84, né un lavoro classicamente “sportivo”, alla fine il racconto di quella finale c’è. E si vede lui sconfitto mentre Lendl, quasi incredulo, festeggia. Viene un senso di angoscia, osservando McEnroe crollare sulla sedia con l’asciugamano in testa. Si vorrebbe allungare la mano verso lo schermo per consolarlo. È voluto?
«Non proprio. Sicuramente voi italiani avete amato McEnroe più dei francesi: so che, dopo quella batosta, per riprendersi venne in Italia e da quella volta, tutti gli anni, giocò almeno un torneo da voi perché aveva trovato quell’affetto e quell’entusiasmo che altrove latitavano. Del resto era un grande antipatico, non faceva proprio nulla per farsi voler bene. Diciamo che il film non crea simpatia per McEnroe - non è che io tifassi per lui - ma certamente empatia. Possiamo percepire il suo disagio, che è autentico; non c’è in azione il campione celebre acclamato dai tifosi ma una vittima di se stesso e della sua natura. Più lo guardiamo, più capiamo che non poteva non comportarsi così. Ci si rende conto del motivo per cui era così intemperante e quanto le sue scenate, in qualche modo, fossero necessarie».

A un certo punto compare una didascalia, una frase attribuita a Mozart: “Io sarò anche volgare, ma vi assicuro che la mia musica non lo è”.
«Sì. Mentre montavo il film ho scoperto che l’attore Tom Hulce, che interpretò Mozart nel film Amadeus, per “allenarsi” nelle scene in cui il musicista era preda della collera aveva scelto di guardarsi i filmati delle partite di John McEnroe. Ora capisco il perché».

Quindi non avrebbe senso pensare a lavori simili, ovvero tentare di catturare l’animo di un altro tennista, come de Kermadec fece con lui.
«Esatto: una cosa simile si poteva fare solo con McEnroe. Anche perché è stato un incompreso. È stato un campione divisivo, per molti era detestabile al di là delle doti eccezionali e, in Europa, arrivò i primi anni lamentandosi con tutto e tutti, al Roland Garros non gli andava mai bene niente, i campi, il pubblico, gli arbitri, il tempo. Il fatto è che era ipersensibile, “sentiva” più degli altri. Aveva sempre i nervi a fior di pelle e intercettava tutto, senza riuscire a scartare ciò che non aveva senso captare, almeno per un tennista. E poi era teatrale, esprimeva tutto ciò che gli passava dentro. Come dice il professionista che mi ha aiutato nel film, McEnroe era un perfezionista patologico. Destinato in qualche modo a soccombere, perché il mondo è imperfetto. Il suo essere perfezionista lo ha sì portato ai massimi livelli del tennis, perché per lui non c’erano alternative alla vittoria, ma lo ha anche danneggiato. Non sono mai stato un grandissimo appassionato di tennis, ed ero giovane quando si giocò quell’edizione di Parigi, ma ogni volta che rivedo il mio film, mi sembra impossibile che possa aver perso quella partita».

Forse proprio il suo non essere così vicino al tennis l’ha aiutata ad avere un occhio differente su un match celebre ma raccontato per stereotipi: uno troppo sicuro di vincere, l’altro che resiste alle botte e alla fine vince.
«Diciamo che il tennis che viene mostrato in televisione è tutta un’altra cosa, rispetto al mio lavoro. Le partite che vengono trasmesse sono il più possibile uniformate: stesse inquadrature, stessi tempi morti. Alle tivù interessa standardizzare un prodotto e venderlo il meglio possibile. Negli ultimi anni, poi, si è insistito moltissimo sulle statistiche: al di là del punteggio, oggi, compaiono numeri dappertutto, durante una partita. Tutto ha una cifra, le velocità, le traiettorie. Non che non servano, ma le statistiche non racchiudono l’anima del match. A voler raccontare il tennis con i numeri, si perde la drammaturgia. Anche per questo motivo de Kermadec rifiutò l’uso delle telecamere televisive e pretese di installare le sue: a lui non interessava filmare la partita di tennis, ma i tennisti».

McEnroe ha detto che il suo lavoro le è piaciuto. Chissà, magari è anche d’accordo con la sua “diagnosi”.
«Sì, è così, avevamo cercato di fargli sapere di questo documentario e, qualche tempo dopo, il suo agente - con mia sorpresa - ci ha comunicato il suo apprezzamento. Ora mi hanno detto che, durante Wimbledon 2019, forse lo presenteremo insieme».

Titolo: John McEnroe: l’empire de la perfection / Regia: Julien Faraut / Sceneggiatura: Julien Faraut / Interpreti: John McEnroe, Mathieu Amalric (voce narrante) / Musica: Serge Teyssot Gay / Fotografia: Julien Faraut / Montaggio: Andrei Bogdanov / Produzione: Ufo Production / Francia, 2018 / Distribuzione: Film Constellation / Durata: 94 minuti. Il docu-film è reperibile su Sky On Demand