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RIVELAZIONE

Maledette Olimpiadi

Marian Vajda svela le ragioni della separazione con Djokovic: non voleva che andasse a Tokyo per preservare la possibilità di completare il Grande Slam. Termina un'avventura iniziata durante un allenamento con Rochus, in cui fu decisiva l'opinione della figlia Natalia. Per Nole è un bel rischio: perde l'uomo che ci aveva sempre visto giusto, come con Pepe Imaz...

Riccardo Bisti
4 marzo 2022

“Chi troppo vuole, nulla stringe”. Non sappiamo se il proverbio sia noto anche in Slovacchia, ma siamo certi che Marian Vajda la pensi così. In un'intervista con un media del suo Paese, lo storico coach di Novak Djokovic ha svelato le ragioni della loro separazione. All'origine del distacco c'è il disaccordo sui Giochi Olimpici di Tokyo. Dopo aver vinto Wimbledon, il sogno di ottenere il Grande Slam era lì, ad un passo. Ma in mezzo c'erano le Olimpiadi, evento a cui Djokovic tiene da matti. D'altra parte, la medaglia d'oro è l'unico grande successo che manca al suo palmares. E lo stesso Nole ha dichiarato che gli piacerebbe arrivare a Parigi 2024. “Ha perso molte energie alle Olimpiadi – dice Vajda – non ero d'accordo con la scelta di andare a Tokyo. Era molto impegnativa e c'era poco tempo per prepararsi. Il fallimento olimpico gli ha tolto energie mentali e fisiche. Capisco il suo desiderio di vincere l'oro, ma ha speso troppo e si è visto a New York”. Vajda parla anche dello status di non vaccinato come elemento della separazione: “Potrà giocare meno tornei del solito, ha già un team molto valido, quindi considerando tutti gli elementi, di comune accordo abbiamo deciso di separarci”. Questa versione convince meno, poiché – a giudicare dalla ricostruzione – il distacco era diventato insanabile prima che si concretizzassero le restrizioni per i non vaccinati. Poco importa.

Va applaudita la correttezza di Vajda: il tecnico slovacco ha lasciato che fosse il team di Djokovic ad annunciare la separazione, evitando di metterlo in difficoltà in un periodo decisamente complicato. “Dopo lo Us Open mi ha detto che sarebbe venuto in Slovacchia, in modo da chiudere nel migliore dei modi. Poi sono arrivati periodi difficili, così mi ha invitato alle ATP Finals di Torino e abbiamo chiuso lì. A quel punto, l'annuncio spettava suo team. Ma tra dicembre e gennaio è successo quello che sapete, e non era il caso di parlare in un momento così delicato. Non sarebbe stato rispettoso nei suoi confronti. Avrebbero dovuto comunicarlo durante o dopo il torneo di Dubai, ma il giornalista Sasa Ozmo lo ha scoperto, così hanno dovuto rilasciare in fretta e furia il comunicato congiunto che avevamo preparato già a novembre”. Con i se e con i ma non si scrive la storia, ma chissà come sarebbe andata se Djokovic avesse ascoltato Vajda e saltato le Olimpiadi? Avrebbe vinto lo Us Open, centrando il Grande Slam? I due sarebbero ancora insieme? Impossibile dirlo, ma la storia insegna che i consigli del coach slovacco sono stati spesso azzeccati, sin dall'inizio.

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«Mia figlia undicenne mi disse che non era convinta di Djokovic, che gli mancava il rovescio. Mi ha detto che sarebbe stato un lavoro difficile, e che mi sarei dovuto impegnare per migliorare il suo gioco» 
Marian Vajda
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La grande avventura del team Djokovic-Vajda racchiusa in due scatti

Classe 1965, ex discreto giocatore (n.57 ATP nel 1991, vincitore di due titoli), Vajda aveva iniziato ad allenare da giovane, seguendo Karol Kucera e Dominik Hrbaty. Poi nel 2006 ci fu la grande occasione: dopo la separazione con Riccardo Piatti, un giovane Djokovic (che in quel momento era n.63 ATP) aveva bisogno di un nuovo allenatore. Il primo incontro avvenne al Roland Garros, in occasione di un allenamento con Olivier Rochus. “In quell'occasione ho incontrato la sua famiglia e ho avuto la sensazione che fossero molto legati – raccontava Vajda – Novak mi ha dato grande fiducia, ho avvertito sin da subito un buon feeling anche se non avevo idea di quello in cui mi stavo cacciando. Mi sono impegnato a raggiungere insieme a lui il suo obiettivo: diventare numero 1 del mondo. Ci sono stati momenti di stagnazione, alcune crisi e terribili pressioni. Per avere successo ci vuole tempo e pazienza”. Per concretizzare la partnership ebbe un ruolo importante Natalia Vajdova, figlia di Marian. Aveva 11 anni e il padre le chiese cosa pensasse di quel ragazzo, che aveva appena compiuto 19 anni. “Lo ha guardato un po' e mi disse che non era convinta, che gli mancava il rovescio. Mi ha detto che sarebbe stato un lavoro difficile, mi sarei dovuto impegnare per migliorare il suo gioco”.

Accettata la sfida della figlia, Vajda avrebbe fatto un capolavoro. Oggi gli hanno chiesto di ricordare il successo a cui è più legato. Ci si poteva aspettare una risposta diversa, invece ha scelto Wimbledon 2011. “Battè in finale il numero 1 Nadal, in un torneo che dal 2003 era sempre vinto dagli stessi giocatori. Dopo quella partita, finalmente, allenavo il più forte giocatore al mondo”. Quel successo, in effetti, ispirò addirittura un cortometraggio-cartoon di una tifosa di Nole. In effetti, Wimbledon era il suo sogno di bambino. Vajda ha resistito anche all'arrivo di Boris Becker, super-coach nel triennio 2014-2016, con il quale aveva sviluppato un buon feeling. I due erano d'accordo nel non volere Pepe Imaz, il guru che per un paio d'anni ha avuto una certa influenza su Novak Djokovic con il suo slogan Amor y Paz. Fu il periodo più difficile nella carriera del serbo, che dopo il torneo di Monte Carlo 2017 diede il benservito a lui e tutto il team (anche preparatore atletico e fisioterapista). Djokovic si affidò ad Agassi e Stepanek (“Con il quale ho parlato più volte, era davvero interessato a comprendere Novak” dice Vajda), ma fu un fallimento. In mezzo, un piccolo intervento al gomito che aveva disintegrato le ultime certezze.

Marian Vajda è stato al fianco di Novak Djokovic in tutti i suoi 20 titoli Slam, e in 85 degli 86 successi. Manca soltanto Eastbourne 2017

La vittoria a Wimbledon 2011 è il successo "del cuore" di Marian Vajda. Dopo quel torneo, il suo allievo è diventato numero 1 del mondo

Dopo l'inopinata sconfitta contro Benoit Paire a Miami 2018, il serbo andò in vacanza in Repubblica Dominicana. Da solo, senza moglie e figli. Da lì telefonò a Vajda, un'ora di colloquio in cui ventilò l'ipotesi di tornare insieme. Un figliol prodigo che il tecnico slovacco accolse dopo una riflessione di quattro giorni con la famiglia, terminata col semaforo verde della moglie Ingrid. “A Novak spiegai che la mentalità americana di Agassi era molto diversa dalla nostra, slava. E poi... sì, uno dei punti su cui ho insistito è stato l'allontamento di Pepe Imaz. Quando giochi a tennis devi colpire la palla e sconfiggere l'avversario, non pensare a Buddha. E lui l'ha capito”. Sistemata anche l'alimentazione, ha contribuito a far tornare il Nole di prima. Da allora ha vinto altri otto Slam e l'inserimento di Goran Ivanisevic nel team è stato perfetto, indolore. Poi è arrivato il 2021, in cui il possibile coronamento dell'avventura si è trasformato in una piccola frizione che – unita alle disgrazie del Covid – ha portato alla fine della collaborazione. Ma non c'è rancore, e nemmeno la tensione di allora. La continuità tecnica è garantita (il resto del team rimane invariato), mentre cinque anni fa fu frantumata.

Questa storia insegna come Djokovic – in effetti – sia un decisionista. Chi lo conosce bene sostiene che può ascoltare mille pareri, ma alla fine fa sempre di testa sua. La questione vaccino lo aveva evidenziato, quella olimpica lo conferma. Col senno di poi è facile parlare, ma se avesse seguito i consigli di Vajda... chissà. E chissà come si svilupperà la sua carriera senza quel signore che in tante occasioni ha definito un secondo padre. “In realtà mi sono sentito più un fratello maggiore – chiude Vajda, che adesso trascorrerà un po' di tempo in famiglia (la figlia Natalia ha smesso di giocare tre anni fa dopo essere stata n.473 WTA. Poco più di un anno fa lo ha reso nonno, facendo discutere l'opinione pubblica slovacca: il padre è l'allenatore di calcio Martin Sevela, già sposato e con due figli adulti) e darà una mano ad alcuni progetti promozionali in Slovacchia. “In futuro mi piacerebbe tornare ad allenare, ma non sarà facile fare qualcosa di simile. In fondo anche i migliori hanno bisogno di fortuna”. Lui l'ha avuta, ma pochi l'avrebbero saputa sfruttare così bene.