The Club: Bola Padel Roma
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“Io solo numero 4? Non me ne frega niente”

A 72 anni, Adriano Panatta continua a emanare un fascino fuori dal comune. Sette gli ha regalato la copertina e un suo dialogo con Sandro Veronesi è andato giù come un saporito cocktail estivo. Perché Panatta sa essere originale anche quando dice la stessa cosa per la centesima volta. Sul tennis di oggi: “Le maglie senza maniche non si possono vedere”
Riccardo Bisti
29 luglio 2022

Non c'è niente da fare. Anzi, un c'è nulla affare, come dice Panatta a chiudere l'intervista con Sandro Veronesi, pubblicata qualche giorno fa su Sette, il magazine patinato del Corriere della Sera. Talmente bella da prendersi la copertina. Non c'è niente da fare, il carisma è come i punti ATP. O ce l'hai, o non ce l'hai. Non si compra al supermercato. E Adriano Panatta, l'unico italiano a vincere un torneo del Grande Slam nell'Era Open, ne ha da vendere. Capita che racconti più volte le stesse cose, magari infiocchettandole con un dettaglio in più, ma è come una calamita. Ti fa attaccare allo schermo, alle cuffie, alle pagine di un giornale. Ed è stato così anche nell'intervista con Veronesi, scrittore di successo (due volte vincitore del Premio Strega), nonché tra gli autori de “Una Squadra”, la docu-serie diretta da Domenico Procacci, uno dei migliori prodotti in cui si mischiano sport e macchina da presa. Panatta e gli altri protagonisti della Coppa Davis 1976 hanno lasciato talmente tanto materiale che non sono riusciti a metterlo tutto, nelle sei puntate andate in onda su Sky. E allora hanno pensato di realizzarci un libro. Ma non ci stancheremmo mai di ascoltare Panatta e gli altri tre, di cui sono emersi lati caratteriali nascosti per decenni.

“Quello umano e malinconico di Zugarelli, la vena ironica di Barazzutti, che peraltro è dorato di una bella proprietà di linguaggio, l'ironia di Bertolucci nei miei confronti e quella mia verso tutti gli altri”. Quest'ultimo dettaglio è amplificato da Twitter, in cui i due si prendono in giro come se fossero due ragazzini delle scuole medie. Ha iniziato Bertolucci per il compleanno di Panatta (lo scorso 9 luglio), il romano ha replicato in questi giorni, domandando agli internauti cosa potrebbe regalare per l'imminente compleanno di Pasta Kid, in arrivo il 3 agosto. La chiacchierata con Veronesi scorre via liscia, saporita e leggera come un cocktail ben calibrato. Ed è bello leggere cose che Panatta ha già raccontato mille volte, ma che riesce a rendere piacevoli ogni volta, grazie alla sua arte affabulatoria. Come quella volta che Arthur Ashe lo difese da Ivan Lendl, parlando del “club”. L'ex cecoslovacco lo aveva preso velatamente in giro, chiedendogli se la settimana successiva avrebbe giocato le qualificazioni in un torneo a Las Vegas, e Ashe replicò dicendogli che avrebbe dovuto rivolgersi a Panatta dandogli del Mister, poiché facente parte del club di coloro che avevano vinto uno Slam.

«Ricordo che feci una telecronaca in finale Parigi quando vinse Wawrinka, e dissi che era vestito come un turista tedesco di Dresda a Milano Marittima. S'incazzarono, ma era la verità» 
Adriano Panatta
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Adriano Panatta chiede consigli su cosa regalare a Paolo Bertolucci per il suo imminente compleanno

Già, perchè Lendl ha perso quattro finali prima di vincerne finalmente uno (e alla fine sarebbero stati otto). Dando un'occhiata alla carriera di Panatta, l'episodio si colloca nell'aprile 1980, durante un torneo giocato al Los Caballeros Tennis Club di Fountain Valley, nei pressi di Los Angeles. L'aneddoto lo aveva già raccontato nel suo primo libro autobiografico, “Più dritti che rovesci”, uscito una dozzina d'anni fa. Quello meno conosciuto riguarda il mitieco Lew Hoad: una volta, al bar dei giocatori di Wimbledon, gli diede della “testa di c....” perchè – a suo dire – avrebbe potuto vincere Wimbledon in qualsiasi momento. “È il suo modo di farti i complimenti” gli avrebbe detto il suo amico John Newcombe, che poi gli avrebbe concesso una settimana di allenamento per dargli qualche dritta su come giocare sull'erba. Non sarebbe servito a molto, salvo che nel maledetto Wimbledon 1979, in cui Adriano buttò via il match di quarti contro Pat Dupre.

Di questo non si parla nell'intervista su Sette, in cui emerge tutta la schiettezza di Panatta. Non c'è niente da fare: non riesce a prendere troppo sul serio la sua carriera, i suoi risultati. Non riesce a mitizzarli, di conseguenza non ha rimpianti. Al contrario di Corrado Barazzutti, che rimpiange di essere stato appena numero 7 dopo aver guidato la classifica mondiale giovanile. “La mia soddisfazione è essere stato il numero 1 su terra battuta nel 1976, sulla superficie in cui ero cresciuto”. Non gli importa di essere stato al massimo numero 4, e non ha vissuto come un rivincita – o addirittura un riscatto sociale – il fatto che i vincitori della Davis 1976 arrivassero da famiglie poco abbienti, così diverse dalla tipologia di persone che poteva permettersi di giocare a tennis fino agli anni '60. “Non ho mai giocato con i soci del TC Parioli e non ho mai provato invidia nei loro confronti, perché ero un bambino felice. Vivevo nel mio appartamento recintato accanto al circolo e giocavo tutto il giorno contro il muro”.

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Panatta non gradì più di tanto il completo di Stan Wawrinka quando vinse il Roland Garros...

Una delle sconfitte più dolorose di Panatta risale allo Us Open 1978, contro l'insopportabile Jimmy Connors. E pensare che arrivò a due punti dal farcela...

Bastava questo, al figlio di Ascenzio, custode di un circolo che sarebbe stato dismesso per le Olimpiadi del 1960 e che sarebbe stato trasferito al Centro CONI delle Tre Fontane. Come a dire che il piccolo Adriano (o Ascenzietto, come lo chiamavano da bambino) ha vissuto fino ai diciotto anni dentro a un circolo tennis. Nell'intervista ricorda la stima per Borg, quel suo essere dottor Jekyll e mister Hyde, e l'antipatia per Jimmy Connors. “Voleva fare lo spiritoso ma non ci riusciva”. E sì, ricorda quel maledetto match allo Us Open 1978, in cui fu l'unico a strappargli due set. E finì col perdere per colpa di quel miracoloso passante quando Adriano era a due punti dal match. Inevitabile una chiosa sul tennis di oggi: gli piace chi gioca bene, nutre ammirazione per Carlos Alcaraz, mentre non sopporta quelli che giocano sempre uguale e, soprattutto, alcune pieghe che ha preso il gioco. Ha iniziato con gli urletti di Monica Seles (“Oggi urlano tutti, lo fanno in troppi quindi ATP e WTA lo consentono”) per poi arrivare all'abbigliamento.

Panatta non le manda a dire, come quando disse che Wawrinka vestiva come un turista di Dresda in vacanza a Milano Marittima. “Si incazzarono, ma era vero”. In effetti ebbe il coraggio di dirlo in TV, durante una finale del Roland Garros. “E poi la canotta non si può guardare. Le divise senza maniche vanno bene nel basket, nella pallavolo, ma nel tennis proprio no”. Così come l'attuale Coppa Davis, a suo dire inguardabile. L'attuale competizione ne ha conservato il nome, ma non ha nulla a che vedere con quella dei suoi anni, in cui era importante quanto gli Slam. Nel 1976, per preparare la finale in Cile, Panatta rinunciò al Masters. “E per le trasferte più impegnative si andava con grande anticipo per acclimatarsi”. Veronesi condivide, propone che la competizione dovrebbe cambiare nome, così come condivide l'opinione panattiana sulle altre brutture del tennis attuale. “Un c'è nulla affare”, chiude Panatta, che in questi giorni si è sottoposto alla quarta dose di vaccino anti-covid. Sempre uguale anche a 72 anni, forte di un carisma che non conosce tempo. Non è capace di invecchiare. Alla prossima intervista, perché di Panatta non ci stancheremo mai.