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IL PERSONAGGIO

Ha preso 10 chili, non crede negli allenamenti... ma batte i top-10

Alexander Bublik avrebbe tutto per essere considerato un personaggio. Eppure si muove nel semi-anonimato, forse perché le sue convinzioni sono ritenute dannose per la narrativa mainstream. “Non credo che lavorare duro serva per diventare un top-10”

Riccardo Bisti
7 marzo 2021

Prendete un ragazzo del 1997 (dunque ancora giovane), già finalista in quattro tornei ATP, appena entrato tra i top-50 e capace di battere gli ultimi tre top-10 affrontati: Gael Monfils, Matteo Berrettini e Alexander Zverev. Abbastanza per costruire un personaggio, o almeno provarci. Invece non c'è corenza tra i risultati e la popolarità di Alexander Bublik, l'ennesimo russo che ha scelto di giocare per il Kazakhstan. Difficile individuare la ragione: Bublik è spettacolare, divertente e fuori dal campo non ha peli sulla lingua. Forse è proprio questa la ragione: è troppo sincero. Lo scorso anno, fece discutere una sua intervista rilasciata all'Equipe. Ammise di odiare il tennis. Da quando Andre Agassi si è scaricato la coscienza con il suo “Open”, in cui rivelò lo stesso sentimento, la frase è un po' depotenziata. Eppure Bublik rilascia dichiarazioni esplosive e le porta avanti con sorprendente coerenza. Un personaggio del genere, forse, è troppo borderline per la narrativa ufficiale, che digerisce a fatica le escandescenze di Nick Kyrgios. Ma l'australiano ha vinto più di lui (per ora), inoltre viene da un Paese con maggiore tradizione.

Ben diversa la faccenda di Bublik, che qualche anno fa ha scelto i soldi della ricca federazione kazaka. “Ad essere onesto, non vedo niente di bello nell'essere un professionista. Gioco solo per soldi. Se non ci fossero i premi in palio, smetterei subito”. Più che il tennis, Bublik odia gli obblighi del professionismo. Scavando un po', senza fermarsi alla frase strappa-titolo, si scopre che in realtà gli piace. “Amo questo sport, non posso dire il contrario. Amo colpire la palla. Quando avrò smesso, continuerò a giocare. Ma è dura fare il professionista, quando devi giocare per forza. Magari ti sei lasciato con la fidanzata, non hai nessuna voglia, ma devi giocare per forza. E quando perdi devi rispondere alle domande sul perché hai perso. Odio queste cose. Negli sport di squadra puoi dire all'allenatore che non sei in grado di scendere in campo, mentre nel tennis non è possibile”.

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"Se lavori duro puoi ugualmente marcire nei Futures in Sudamerica. Non penso che alzarsi alle 5, fare corse campestri e mangiare pasta senza glutine serva per diventare top-10. Beato chi ci crede" Alexander Bublik
10 motivi per cui vale sempre la pena seguire i match di Alexander Bublik

Ogni tanto questi pensieri emergono durante le partite. Come qualche giorno fa a Rotterdam: veniva da un ottimo momento, con la finale a Singapore e il successo su Sascha Zverev. Il giorno dopo, appena le cose hanno preso a girare male contro Tommy Paul, si è infilato in una sequela di parolacce contro il tennis, contro se stesso e contro il mondo intero. Ha perso 6-1 al terzo. Per questo, forse, gli concedono poco spazio nella narrativa mainstream. Di solito l'ATP è molto solerte nel promuovere l'immagine dei suoi giocatori, specie i più giovani. Bublik faceva parte dei primi Next Gen, iper-pubblicizzati. Eppure non l'hanno considerato granché: a parità di risultati, gente come Elias Ymer, Taylor Fritz e Casper Ruud hanno avuto molta più pubblicità. Certo, non è facile realizzare un articolo tradizionale su di lui, viste certe risposte.

Ci hanno provato la scorsa estate e si sono sentiti dire che è un gambler, definizione pericolosissima al giorno d'oggi. In realtà voleva dire che gli piace rischiare la seconda di servizio nei momenti importanti. “Quando tiro una bomba sul 40-40 mi sento bene. Per me non esiste giocare in sicurezza. Bisogna avere gli attributi per tirare la seconda sul 5-5. Qualcuno può dire che è stupido: sì, lo è, ma io ho il coraggio di farlo. A volte funziona, a volte no, ma a me piace giocare così”. Sul concetto di attributi e coraggio abbiamo moderato i termini, poiché Alexander ne aveva scelto uno più colorito. “A volte funziona, a volte no” diceva. Vero: nel 2019 ha perso per sedici volte al primo turno. E nel circuito ATP si sta infilando in una pericolosa striscia di finali perdute: zero su quattro. E pensare che tra i Challenger ne aveva vinte sei su sei. Perché Bublik è così, imprevedibile, nemico della logica. Odia la vita da professionista, ma poi svolge una programmazione insensata: Australia, Singapore, Rotterdam e adesso Doha, laddove oggi ha esordito con il qualificato Ramkumar Ramanathan.

Il kazako è dotato di un servizio molto potente. Spesso tira la seconda palla alla stessa velocità della prima
Quando Alexander Bublik  è in campo le sorprese sono sempre dietro l'angolo

È divertente scovare l'incoerenza delle sue affermazioni: nell'intervista con l'ATP, ha descritto la quarantena come un periodo di costruzione. “Ho iniziato a lavorare sulla seconda di servizio. Vorrei diventare top-20, magari top-10, dunque non posso tirarla sempre. Ho ancora questa opzione, ma non devo abusarne. Per non limitarmi a singoli exploit devo essere solido. Durante la quarantena ho avuto tempo di pensare e ho provato a essere più disciplinato. Magari in campo perderò un po' della mia natura, ma così avrò una chance per fare meglio. Ho iniziato lentamente a lavorarci”. Ok. Spulciando frasi meno istituzionali, si scopre che ha trascorso buona parte del periodo tra ozio e videogiochi. D'altra parte, la sua scheda sul sito ATP ricorda che la sua principale qualità è.... dormire. “Posso dormire anche 16 ore di fila”. “Durante la quarantena ho mangiato e dormito: mi sono allenato per un mese.

A marzo pesavo 73 kg, ad agosto 82. Per adesso il peso è rimasto tale, forse le ossa sono diventate più pesanti”. Alla fine è un tipo simpatico, perché le stranezze rimangono nella sua metà campo, senza provocazioni o litigi con gli avversari. Anche il servizio da sotto (che fece impazzire Dominic Thiem in un match al Roland Garros) non è ritenuto irriverente come quello di Kyrgios. Semplicemente, lui è fatto così e non ha intenzione di cambiare. Certi dogmi non esistono, per lui. Sentite questa: “Non credo negli allenamenti, non penso che facciano stare meglio. Puoi entrare tra i top-50 o restare fuori dai primi 350. Non credo al mito secondo cui, se lavori molto, puoi diventare tal dei tali. Se lavori duro puoi ugualmente marcire nei Futures in Sudamerica. Non penso che alzarsi alle 5, fare corse campestri e mangiare pasta senza glutine serva per diventare top-10. Beato chi ci crede”. Beato anche chi non ci crede.