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EDITORIALE

Mouratoglou, agent provocateur?

Un primo giudizio sull’Ultimate Tennis Showdown che, secondo coach Mou, dovrebbe affiancare il circuito pro per attrarre i giovani. Ma le regole introdotte non hanno rispetto del gioco e dei suoi tempi

Lorenzo Cazzaniga
15 giugno 2020

Provo una certa invidia per Patrick Mouratoglou: un bell’uomo, molto benestante, certamente carismatico e sospetto molto apprezzato dal pubblico femminile. Nel palmares, una carriera di vivo successo, sportivo e imprenditoriale, con quel pizzico di megalomania che non è necessariamente un difetto ma può diventare un tratto pericoloso se non si riesce a governarla. È quanto temo sia accaduto con la sua ultima trovata, lo Ultimate Tennis Showdown, una sorta di wrestling applicato al tennis, dove lo spettacolo prevale sullo sport.

Mouratoglou ha parlato da commissioner di uno sport che ritiene essere in grave pericolo: «La base degli appassionati di tennis sta invecchiando in maniera preoccupante e fatica a rinnovarsi. Si sopravvive grazie a un fan base creata negli anni 70 e 80 ma, a parte gli appassionati, pochi guardano il tennis. Il sistema deve evolversi per non ritrovarsi nei guai». E come fare? L’abbiamo scoperto ieri, quando ci siamo ritrovati Matteo Berrettini e Dustin Brown a giocare secondo regole perfino curiose, con i set trasformati in quattro quarti da dieci minuti, giocatori che servivano due volte ciascuno e card da sfruttare come nei giochi d’azzardo, per togliere la prima palla all’avversario o cercare un vincente che ti regali tre punti. Tutto per abbreviare i tempi di gioco, perché i giovani pare apprezzino solo la brevità.

Mou ci vuole regalare un tennis fast food, però non ha pensato di rinfrescare le regole ma di rivoluzionarle. E quando cominci a oltrepassare i limiti, ti dimentichi dove sono…

Un tennis fast food, è quello che ci vuole regalare Mou che parte da un assunto condivisibile («Il tempo di gioco effettivo nel tennis non raggiunge il 20% e nessun ragazzo vuole restare tre, quattro ore davanti alla tv per guardare un match intero») ma sviluppa una soluzione che spinge il gioco così lontano dalle sue origini da non poterlo più nemmeno chiamare tennis. L’ATP ha già provato a verificare il gradimento di un format diverso alle Next Gen ATP Finals, Mou si è spinto oltre perché non ha pensato di rinfrescare le regole ma di rivoluzionarle. E quando cominci a oltrepassare i limiti, ti dimentichi dove sono e non riesci più a vederli.

Anche se il giudizio tecnico non può essere definitivo dopo una sola giornata e con i giocatori reduci da tre mesi di lockdown, voglio pensare che quella di Mou sia soprattutto una forte provocazione verso l’establishment del tennis e i suoi tanti governanti. È corretto pensare all’evoluzione del gioco e farlo per tempo, prevenendo eventuali fastidi, così come cercare di avvicinare i giovani (ma siamo così sicuri che i ragazzi si stiano allontanando dal gioco?). Tuttavia, non sempre una rivoluzione migliora la situazione, soprattutto quando non se ne avverte il bisogno.

Bisogna avere rispetto dello sport e dei suoi tempi di gioco. Il rischio è l’abbassamento della qualità tecnica dei match, nell’idea di velocizzare il gioco a ogni costo

Va detto che Mou sostiene di non volere che l’UTS sostituisca il circuito mondiale (sia lodato) ma che potrebbe rappresentare una solida alternativa per conquistare quel target giovanile che manca al tennis tradizionale, stando al suo parere e ai risultati di uno studio realizzato dall’ATP nel 2016 (i cui risultati hanno stabilito che negli Stati Uniti il 59% degli appassionati di tennis ha oltre 55 anni, anche se certe analisi dovrebbero tener conto di come è stata condotta la ricerca, sulle quali si hanno scarse notizie. Oltre a necessitare di una scala più internazionale). Tuttavia, mi chiedo con quali giocatori sarebbe possibile riempire i tabelloni dell’UTS, perché non si può chiedere ai top players di essere una settimana Gebrselassie e quella dopo Usain Bolt. A meno che l’incentivo rimanga essenzialmente economico, che però non farebbe sparire l’atmosfera da esibizione. Inoltre, con le regole così stravolte, cambierebbe tutto: l’approccio al match, lo sviluppo tecnico-tattico, perfino il modo di giocare. E allora cosa insegnare ai giovani? Nella sua stessa accademia, Mou preparerebbe le giovani promesse al circuito tradizionale o all’UTS? Perché pensare di farlo per entrambi è folle. Inoltre, queste norme non sono applicabili al tennis amatoriale (a partire dal cronometro per indicare il tempo): dunque, come appassionare il pubblico a un gioco che non possono praticare? Oppure vogliamo sottrarre al tennis una delle sue benemerenze, cioè di avere tanti praticanti tra i suoi spettatori?

Bisogna avere rispetto dello sport e dei suoi tempi di gioco. Un rischio che non si è sottolineato, è l’abbassamento della qualità tecnica dei match. Velocizzare a ogni costo il gioco, vuol dire impedire ai protagonisti di esprimere il loro miglior tennis. Tutti vorremmo evitare che i giocatori si asciughino il viso dopo ogni scambio e quindi si potrebbe pensare di ridurre a 20 secondi il tempo concesso tra un punto e l’altro, ma oltrepassare il limite (anche in questo caso...) implica un rendimento tecnico più basso perché uno sforzo necessita anche di adeguato riposo. E io sono ben disposto ad aspettare qualche secondo per poi ammirare uno scambio come Dio comanda mentre non avvertirei alcun piacere nel veder correre un giocatore al servizio solo perché sta scadendo il quarto e deve inventarsi qualcosa di improbabile per sistemare le cose. Il buzzer beater lasciamolo al basket.

Mi chiedo con quali giocatori sarebbe possibile riempire i tabelloni dell’UTS, perché non si può chiedere ai top players di essere una settimana Gebrselassie e quella dopo Usain Bolt

Anzi, proprio il concetto di voler trasformare il tennis in una gara a cronometro è la critica maggiore che dovrebbe essere mossa all’UTS. Il tennis ha il pregio di non ammettere la melina, di non accettare scorciatoie: per vincere non basta prendere un buon vantaggio, bisogna avere il coraggio di conquistare l’ultimo punto. Inoltre, il tennis non ha nemmeno bisogno di maggior equilibrio: una delle statistiche più impressionanti mostra che gli stessi fenomeni, Roger Federer, Rafael Nadal e Novak Djokovic, in carriera hanno vinto il 54% dei punti giocati. La maggior parte dei match si gioca su pochissimi punti e non si può nemmeno prevedere quando si verificherà il momento decisivo. Spesso basta un break, e questo può giungere nel primo game come nell’ultimo. Quale altro sport genera così tanta incertezza? Con il cronometro a definire la fine di un set, si rischia di trasformare gli ultimi minuti in garbage time, vera e propria spazzatura, se un giocatore ha conquistato un buon vantaggio. Proprio quando l’attenzione dovrebbe essere maggiore, cioè alla fine di un parziale o di un match.

Credo sia giusto intervenire se il paziente è grave (ricordate quando la pallavolo era in forte crisi e ha eliminato il cambio palla?) ma val la pena ricordare che nel 2019 i 63 tornei ATP hanno attratto 4,82 milioni di appassionati e distribuito 139 milioni di dollari di montepremi, record assoluti. E non mi sembra che i tornei dello Slam abbiano attraversato momenti di crisi, tutt’altro. Lo stesso Mou, in un improvviso attimo di modestia, ha detto che «siamo alla ricerca della formula ideale e per adesso il tennis ha milioni di fans e l’UTS... il sottoscritto», però è complicato pensare che un simile format possa avere successo e passare dallo status di esibizione a quello di un evento serio.

Su un aspetto si può concordare con Mou: bisogna lasciare liberi i giocatori di esprimere la loro personalità. Il codice civile e penale di un paese dovrebbe già rappresentare un limite accettabile, senza bisogno di ulteriori restrizioni. Perché impedire a un giocatore di spaccare una racchetta? Perché non è un buon esempio per i ragazzi? Cioè quegli stessi ragazzi che smanettano su Call of Duty, il videogioco sparatutto? E dovrebbero impressionarsi per un tizio che spacca una racchetta? Può aver ragione Martin Blackman, ex buon giocatore e ora General Manager dello USTA Player Development che ha dichiarato: «Il livello di gioco è talmente alto che richiede sempre la massima attenzione. Devi imparare a gestire le emozioni, restare concentrato e capire come risolvere i problemi. Liberare le proprie emozioni potrebbe influenzare questi aspetti. Credo sia per questo motivo che i giocatori cercano di controllare le loro espressioni». Imprescindibili necessità (più della paura di un’ammenda) che si scontrano con le distrazioni che porta appresso un atteggiamento da showman. Ma quantomeno che siano i giocatori a deciderlo, non un regolamento troppo stringente. Perché è indubbio che, si potesse infilare un microfono addosso a Nick Kyrgios o Fabio Fognini mentre giocano, sarebbe uno spasso (anche se non prenderei mai l’australiano come archetipo del giocatore di tennis, considerando il suo scarso apprezzamento del gioco).

Dunque, qual è il futuro dell’Ultimate Tennis Showdown? Credo/spero che rimanga una divertente formula di esibizione ma che non troverà spazio nel tennis più autentico, nei tornei che contano. Il nostro gioco può aver bisogno di migliorare il suo appeal nei confronti dei giovani e di rendere la sua formula più attraente per le televisioni, cuore pulsante di ogni evento, ma deve trovare soluzioni (molto) diverse da quelle prospettate da coach Mou e che mantengano inalterata la sua essenza.