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L'OPINIONE

Arabia Saudita, il grande dilemma del tennis

Le Next Gen Finals potrebbero essere il primo passo di un robusto sbarco del grande tennis in Arabia Saudita. Discipline importanti hanno aperto la strada, e il fondo per gli investimenti pubblici sembra non avere limiti. Ma c'è un tema etico che non può essere ignorato. 

Federico Ferrero
30 luglio 2023

Detto che l’ipocrisia è percolata in tanti nostri gesti quotidiani - con un clic manifestiamo sdegno per la sorte del negozietto di quartiere e, con un altro, ordiniamo un imprescindibile tagliabrodo fluorescente all’una del mattino, costringendo un addetto a scapicollarsi per impacchettarlo entro dieci minuti e farcelo arrivare a casa il mattino dopo, percorsi duecento chilometri di autostrada a carburante non molto green, dicevo, la notizia (seppur priva di bollino ufficiale) della settimana è lo spostamento di un torneo di tennis internazionale, benché di fine anno e dall’interesse pubblico sostanzialmente modesto (le ATP Next Gen Finals) dalla capitale economica d’Italia – Milano - a Gedda, in Arabia Saudita.

Ora: il pezzo potrebbe anche concludersi qui, giacché re e primo ministro saudita è Mohammad bin Salmān e, col mestiere che faccio, mi riesce complicato passare oltre. Magari non tutti lo sanno, o lo ricordano, ma un giorno – non lo dico io, lo hanno confermato tutte le indagini in merito compresa quella, particolarmente accurata, dell’intelligence statunitense – il sovrano locale ha dato l’assenso all’uso della forza contro un giornalista che rompeva sonoramente le scatole, il signor Jamal Khashoggi. Non c’è conferma, invece, che il re fosse a conoscenza del fatto che il piano prevedesse di eliminare fisicamente il cronista; fatto sta che successe, nel 2018, nei locali del consolato arabo a Istanbul – quindi, giuridicamente, in territorio saudita.

Ma siccome siamo gente di mondo, sarebbe poco commendevole dimenticare che sull’altra sponda della penisola, a Dubai – Emirati Arabi, quindi - si disputa un torneo ATP non da ieri ma da trent’anni, tondi tondi. Torneo del quale fu finalista Andrea Gaudenzi nel 1995, il suo anno migliore, quando arrivò a una manciata di punti dalla top 10. Evento che ha una sua ricca versione femminile – per l’ATP è un 500, per la WTA un 1000, ancorché l’associazione femminile, in questi ultimi anni, abbia mostrato una nuova sensibilità nei confronti del rispetto dei diritti umani in genere e delle donne in particolare.

Bene. Gaudenzi, il mese scorso, è stato confermato alla guida del sindacato ATP, manterrà la carica di chairman fino a tutto il 2026 e corre voce – più di una voce - che il torneo riservato ai migliori under 21 della stagione, le NextGen Finals, passerà da Milano proprio a Gedda (Jeddah, se preferite) già a fine 2023. Sulla manifestazione in sé, personalmente, resto piuttosto tiepido: nel 2017, al suo esordio, ne capivo vagamente il senso di laboratorio per esperimenti su regolamento e pubblico, nonostante alcuni tentativi (i set ai 4 game, l’abolizione del let sul servizio, la musica a riempire ogni vuoto e il casino sugli spalti consentiti durante il gioco) si siano rivelate altrettante aberrazioni inapplicabili nel Tour. Altri, per la verità – l’occhio di falco globale, l’asciugamano self service, il coaching, lo shot-clock – sono poi entrati, pian piano, anche nel tennis regolare ma, a mio avviso, ciò che manca è la sensazione di un miniMaster, di un campionato del mondo per under 21. Anche perché, nel caso di piccoli fenomeni – Zverev, Sinner, Alcaraz – poi succede che, se il lizza c’è la partecipazione al Masters vero, non si pone neppure il problema di quale torneo disputare.

Wayne Ferreira con il trofeo vinto a Dubai nel 1995. Batté in finale Andrea Gaudenzi, attuale leader ATP

I grandi tornei in cui mettere in mostra la miglior mercanzia del Tour - cioè i suoi campioni - potrebbero giocarsi proprio a casa di chi può garantire soldi a ciclo continuo, sbaragliando ogni tipo di offerta del Vecchio Mondo.
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Decidere se spostare o meno un circo sportivo – che sia tennis, calcio, Formula Uno o altro – in posti come l’Arabia Saudita è una mera questione di bilanciamento di interessi. Da un lato ci sono i soldi. Tantissimi, una fonte così generosa da avere già convinto la Lega italiana a disputarci una finale di Supercoppa cinque anni fa e il più importante campionato motoristico del mondo, dal 2021 a questa parte. Figurarsi se cacciare due milioni di montepremi per le NextGen può rappresentare un problema, per uno Stato che ha conosciuto una fortuna economica deflagrante a partire dagli anni Quaranta del Novecento, quando si iniziò a estrarre il petrolio e, oggi, può permettersi operazioni al di là dello spregiudicato, come l’acquisto di fuoriserie dello sport a prezzi altrove improponibili. Come lo sfizio di strappare Kylian Mbappé al Paris Saint-Germain – la cui proprietà non è delle suore orsoline, peraltro, ma appartiene al fondo sovrano Qatar Investment Authority, direttamente riconducibile all’emiro del Qatar Tamim Al Thani.

La squadra della capitale Riad, l’Al-Hilal, ha provato a forzare i tempi senza aspettare un altro anno, cioè la scadenza del contratto di Mbappé, e ha messo sul tavolo 300 milioni per il PSG per ottenere l’assenso a parlare col giocatore. Cui ne avrebbe proposti 700 (settecento, sì) di ingaggio, salvo vedersi rifiutato dall’attaccante francese pure un incontro esplorativo. Con altri duecento milioni in circa tre anni – massì – un’altra squadra locale, l’Al-Nassr, si è assicurata ciò che rimane delle prestazioni di Cristiano Ronaldo e ha aggiunto alla rosa Brozovic, Telles, Seko Fontana. Ronaldo cui è stato affidato un ruolo ulteriore, rispetto al mero fare gol: sdoganare il valore sportivo di un campionato zeppo di stelle (alcune delle quali in disarmo, per il vero) e, finché poi pare possa aver prevalso il buon senso stante la totale assenza di requisiti e tempi, sostenere la candidatura dal Paese all’organizzazione dei campionati mondiali di pallone del 2030. Che ora potrebbe diventare un’ipotesi per il 2034. Anche Karim Benzema è diventato un volto pubblico del calcio saudita e potrà consolare la sua militanza nel ben poco attrattivo, sportivamente, Al-Ittihād (altra squadra di Gedda, ove farà compagnia a Kanté e Jota) rispetto al Real Madrid, con cui si è aggiudicato il Pallone d’oro, con uno zero in più al contratto da 10 milioni l’anno che aveva firmato in Spagna.

Cristiano Ronaldo non si è limitato a firmare per l'Al-Nassr, ma è diventato una sorta di frontman dello sport saudita

È, però, in questo senso che andrebbero giudicate operazioni come quella che sembra aver deciso l’ATP. Che un torneo secondario, ininfluente rispetto a Slam e Masters 1000, destinato peraltro a essere piazzato in piena off-season venga ospitato in territori governati da regimi liberticidi e arretrati sui diritti dei cittadini in generale, delle donne e delle minoranze in particolare, in sé non sposta granché. Non più di un torneo come Doha, pure quello dalla storia trentennale. Semmai, ciò che andrebbe valutato è l’apertura di credito, in tutti i sensi, verso quella parte di mondo, con tutto il suo portato. Capisco che la pecunia, per un uomo d’affari e per un business sportivo che punta ad accrescere il fatturato, possa non avere odore. Ma se il fine da perseguire, per conto di una associazione privata quale l’ATP, è il solo accrescimento del giro di affari, nulla vieta di pensare che questo patto possa preludere ad altri tipi di accordi, anche più ponderosi.

Soprattutto dando un occhio alla situazione geopolitica, nella quale la pratica di alcuni regimi dello sportswashing è palese: proprio l’Arabia Saudita, a partire dal solo 2021, ha speso decine di miliardi per assicurarsi calciatori di grido e comprarsi il Tour di golf dopo aver tentato la via dello scontro (prima pagando per la creazione di un circuito parallelo, il Liv, per poi trovare un accordo di unione con il PGA Tour). Il tutto con la leva finanziaria del Pif, Public Investment Fund, nome generico di una entità ben specifica: è il fondo sovrano dell’Arabia Saudita. Quello con cui l’ATP ha conversato in questi mesi. Se non valgono pregiudiziali etiche – e pare di no – né pesano valutazioni di opportunità, come la sensatezza di far traslocare eventi di alto livello sportivo in terre cui mancano tradizione e cultura (il tennis, in Arabia Saudita, non è uno sport largamente praticato né seguito), la frase di Gaudenzi («Our goal is to showcase the top players in the world's premier events») potrebbe anche significare che, quei grandi tornei in cui mettere in mostra la miglior mercanzia del Tour - cioè i suoi campioni - potrebbero giocarsi proprio a casa di chi, quei soldi, può garantire a ciclo continuo, sbaragliando ogni tipo di offerta del Vecchio Mondo.

In altri posti ci si chiede cosa succederebbe, se la NBA permettesse di far offrire 5 o 600 milioni a LeBron James – che ha già accettato, virtualmente, su Twitter – o a Giannis Antetokoumpo per portarseli chissà dove. Oppure, se si concedesse al fondo Pif di accaparrarsi direttamente le franchigie, un po’ come è successo nel calcio col Newcastle United, o se ci si lasciasse sedurre dal fruscio dei petrodollari come sta accadendo nel cricket a colpi di sponsorizzazioni, organizzazioni di eventi e competizioni. Il tennis, da sport di singoli che non riesce a mettersi d’accordo su quasi niente, neppure sulla sua governance tra sindacati (c’è anche la PTPA di Djokovic, che riscuote consensi crescenti), tornei, comitato Slam e federazione internazionale, e che di pastrocchi rincorrendo il denaro ne ha già combinati (vedi la disgraziata avventura della Coppa Davis by Piqué) ha di fronte a sé una scelta. Non facile, certo.

Difatti neppure Novak Djokovic, che è a capo di una unione sindacale nata in aperto dissidio con le politiche ATP, se l’è sentita di affondare la lama: «Penso che fosse solo una questione di tempo prima che (i sauditi) iniziassero una sorta di negoziazione o conversazione nel tennis, per provare a entrarci. Lo hanno fatto praticamente con tutti gli altri sport globali, tranne forse il basket. Vediamo cosa sta succedendo nel calcio negli ultimi anni, le stelle che vanno lì per enormi somme di denaro. Sappiamo che c'è la Formula 1, tutti gli altri sport, il golf, eccetera. Penso che noi, come sport individuale, a livello globale siamo probabilmente i più vicini al golf in termini di come vediamo lo sport. Penso che, da quell'esempio, possiamo probabilmente imparare molto, alcuni aspetti positivi, alcuni negativi, e cercare di strutturare un accordo, se si va in quella direzione in un modo corretto. Che protegga l'integrità, la tradizione e la storia di questo sport». Per ciò che si osserva finora, sembrano più chiare le parole del golfista ex fidanzato di Caroline Wozniacki, Rory McIlroy: «Voi preferireste avere uno dei più grandi fondi sovrani come alleato o come nemico? Alla fine sono i soldi a parlare: quindi, è meglio averli come partner». Già, meglio. Ma per chi?