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One Photo, One Story: la prima classifica

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23 giugno 2023

Di Federico Ferrero (*)

Cinquant'anni fa nasceva la classifica ATP. Il primo ranking a foglio traforato è del 23 agosto 1973, una data diventata storica grazie alla Trw di Simon Ramo. Simon chi? Scopritelo con noi…

Simon Ramo è scomparso a 103 anni ma è rimasto perfettamente lucido anche dopo aver festeggiato il secolo di vita. È un genio del flusso di elettroni: laureato in fisica e ingegneria elettrica, era stato tra gli scienziati più prolifici del colosso General Electric, negli anni Trenta e Quaranta. I suoi studi sulle frequenze e sul voltaggio avevano dato una mano agli Stati Uniti a difendersi con i radar e la missilistica terra-aria dalle offensive naziste durante la seconda Guerra Mondiale. Terminato il conflitto, Ramo non si accontentò di un super stipendio e fondò la Ramo-Wooldridge, poi confluita in Trw, partner di spicco dell’apparato militare Usa nell’ingegneria aerospaziale e militare.

Dai missili Falcon alle risposte di rovescio di Ilie Nastase, l’apparente incompatibilità fu superata da una delle passioni del dottor Ramo, innamorato fin dall’adolescenza di due strumenti d’arte: il violino e la racchetta. Il suo vicino di casa più ricco e famoso a Los Angeles era Jack Kramer, campione di Wimbledon e dello US Open, grande oppositore del dilettantismo e caposaldo del movimento dei tennisti professionisti. La scelta del soldo era costata a Kramer un buon numero di titoli Slam, ai tempi proibiti a chiunque giocasse per denaro; dopo la storica liberalizzazione del 1968, aveva fatto carriera nel tennis Open facendosi nominare primo direttore esecutivo del sindacato giocatori.

La prima querelle che si fu costretti a risolvere era basilare: l’introduzione del tennis libero a tutti, dilettanti e professionisti, aveva fatto sciamare nel medesimo contenitore due circuiti fino a quel momento paralleli e non comunicanti. Non esisteva un metodo di classifica oggettivo, perché la faccenda del ranking non era mai stata affrontata dai professionisti, (auto)confinati in un ciclo di esibizioni-baraccone che sportivamente non valevano nulla, ma economicamente fruttavano ogni anno come cento Wimbledon di un dilettante. D’altro canto, la cultura retriva dei dirigenti del tennis dilettantistico - per quanto sia incredibile a credersi, leggendo con i criteri di oggi i fatti di allora – aveva impedito che il tennis si attrezzasse di una classifica mondiale, anche solo vagamente oggettiva.

In quella prima classifica, Nastase aveva doppiato il numero due, lo spagnolo Manuel Orantes; terzo era Stan Smith. Al numero 8, Adriano Panatta, dietro a John Newcombe e davanti a Tom Okker

La conseguenza era oscena: i giocatori venivano iscritti, anche nei tabelloni dello Slam, con un metodo per noi inaccettabile, l’arbitrio. Una parte degli atleti veniva raccolta dalle liste compilate da ciascuna associazione o federazione tennis nazionale, che giudicavano a loro gradimento gli atleti nazionali. Gli altri, sostanzialmente, erano invitati per fama, convenienza o puro piacere. Le uniche classifiche circolanti fino al 1968, e anche per i cinque anni successivi all’unificazione del tennis, erano liste compilate da personalità eminenti del tennis, spesso giornalisti. Tra questi, stante il peso del tennis britannico nella prima metà del Novecento, un manipolo di reporter del Daily Telegraph di Londra: Wallis Myers, John Olliff e Lance Tingay; con loro, l’ex capitano di Davis francese Pierre Gillou e lo statistico del tennis australiano Joe McCauley.

Era però il ranking manuale di Tingay a essere utilizzato come riferimento per i top ten (dal 1952 al 1972), una guida per la compilazione delle prime teste di serie e l’assegnazione del titolo di miglior giocatore della stagione. Prendiamo Wimbledon, con i suoi 128 iscritti al primo turno. Trascritta la selezione delle federazioni dei Paesi più influenti - quattro giocatori ciascuna – il resto della flotta era scelto con la più bieca discrezionalità[1]. Ecco la ragione per cui alcuni spezzoni del primo turno di Wimbledon 1968, i primi Championships dell’era Open, somigliano al tabellone di un campionato nazionale: c’erano 16 inglesi iscritti (tanto meritevoli che, al terzo turno, erano sopravvissuti in due). La classifica dei primi dieci tennisti del pianeta del 1968 di Lance Tingay suonava così: Laver, Ashe, Rosewall, Okker, Roche, Newcombe, Graebner, Ralston, Drysdale, Gonzales. Ma non era la stessa di mister McCauley[2]. A sua volta, Bud Collins negli States aveva scelto diversamente[3]. In quegli anni di passaggio, si era affidato incarico anche alla Sid (la Sports Information Dienst, un’agenzia di news tedesca fondata nel 1945) di rastrellare i ranking personali di una ventina di giornalisti specializzati, per fornire una classifica di anima europea. Più il tennis cresceva e si faceva disciplina mondiale, più si riteneva intollerabile che il titolo di primo giocatore al mondo venisse stabilito con metodi ottocenteschi come la sentenza di un giornalista, per quanto ritenuto competente e affidabile[4].

La finale dello US Open 1973 tra Jan Kodes e John Newcombe
Ramo e Jack Kramer discutevano spesso di quella clamorosa debolezza. Se c’era qualcuno in grado di offrire una scappatoia, quello era Simon: nel boom tecnologico degli anni Sessanta, aveva spinto per la diffusione di un nuovo sistema di acquisto, che conservasse e ordinasse dati in uno spazio minimo e permettesse ai cittadini di comprare e viaggiare senza portarsi dietro carta e monete o addirittura senza possedere riserve di denaro al momento dell’acquisto: era la carta di credito.

La neonata ATP si era messa in cerca di un metro oggettivo, una scala graduata che valutasse senza parzialità suoi associati, sottraendo ai tornei e alle federazioni il potere di vita o di morte sui giocatori. Stan Smith, il numero uno di Tingay nel 1971 e 1972, la ricorda così: «C’erano alcuni nostri colleghi che venivano inseriti nei tornei solo perché si sapeva che avrebbero fatto vendere biglietti. Altri, che non avevano un gran nome dalla loro, si trovavano in una situazione-limite: a volte restavano fuori senza un motivo tecnico o agonistico. Era uno star system, e il sindacato lottò per abolirlo».

Simon Ramo spiegò la situazione a un suo ingegnere impiegato alla Trw, Bob Kurle. Alcuni princìpi della carta di credito vennero trasferiti nel nascituro ranking: tradurre in numeri le prestazioni, ridurre in cifre i valori sul campo, contare e pesare i successi, erano sfide fatte apposta per Ramo. Che non poté occuparsi sempre in prima persona del progetto, con le responsabilità di cui si faceva carico in quegli anni di guerre e tensioni militari, ma mise a disposizione dell’amico Jack un bel cervello umano, il suo dipendente Kurle, e un cervellone elettronico, Blinky (detto così perché lampeggiava, come tutti i mostri elettronici del tempo): era un gigantesco mainframe in cui Simon e Kurle iniettarono dati per giorni, prima che la macchina sputasse la sua sentenza.

Blinky rispondeva a ordini umani e il mandato dell’ATP era chiaro: i tornei andavano divisi in categorie (A, B, C e così via) a insindacabile giudizio dell’associazione; Slam e tornei più ricchi valevano di più, gli altri a scalare. La classifica teneva conto di tutti i risultati delle ultime 52 settimane e la posizione di un giocatore veniva stabilita con il sistema della media aritmetica, dividendo la cifra totale dei punti conquistati per il numero di tornei giocati. Riuscire a battere un giocatore più in alto in classifica garantiva poi un bonus, studiato in modo tale da risultare crescente al salire del ranking dell’avversario sconfitto[5]

Alcuni princìpi della carta di credito vennero trasferiti nel nascituro ranking: tradurre in numeri le prestazioni, ridurre in cifre i valori sul campo, contare e pesare i successi, erano sfide fatte apposta per Ramo

Il primo ranking uscì dalla bocca della stampatrice di Blinky con un elenco di 185 giocatori, nel penultimo weekend di agosto del 1973. Il personale della Trw e gli emissari dell’ATP, Jack Kramer in testa, passarono due giorni e due notti a controllare, riga per riga, le possibili amnesie del cervellone: ancora oggi, sul primo ranking a fogli forati, restano i segni degli emendamenti, delle postille e le note di bozza dei correttori umani. Dal 125esimo posto in giù, iniziavano a mancare i nomi di battesimo e in lista comparivano i P. Kanderal, gli H. Engert, i P. Toci[6]. Ultimo giocatore con punti, l’australiano Kim Warwick (numero 15 nel 1981, legato suo malgrado alle imprese di Panatta[7]).

Nel 1973, Adriano Panatta era il numero otto del mondo nella prima classifica redatta da un computer. In questo video, la sua vittoria contro un giovane Bjorn Borg a Roland Garros

Con 17 punti di media, guadagnati in 8 tornei, lunedì 23 agosto 1973 venne identificato in codice binario il primo numero uno del mondo del tennis. Lanciato in orbita dai punti di Roland Garros, Roma, Queen’s e tanti altri successi ottenuti in quei mesi, nessuno poteva vantare il record del geniaccio rumeno Ilie Nastase. Ventisette anni compiuti da poco, talento assoluto dal carattere tormentato, Nastase si era appena negato la gioia della vita. Rincorso da sempre, mancato l’anno precedente in una finale di rara qualità ceduta per due sciocchezze sotto rete a Stan Smith, Nasty aveva fallito il più disponibile dei Wimbledon: nel 1973 quasi tutti i grandi del tennis avevano boicottato i Campionati per protesta contro la squalifica inflitta allo slavo Niki Pilic dalla sua federazione (Pilic aveva rinunciato a una convocazione in Davis per giocare un’esibizione). Eppure Nastase, privo di competitori, si autoeliminò negli ottavi di finale, lasciando strada a Sandy Mayer.

In quella prima classifica, Nastase aveva doppiato il numero due, lo spagnolo Manuel Orantes; terzo era Stan Smith. Al numero 8, Adriano Panatta, dietro a John Newcombe e davanti a Tom Okker, l’olandese volante.

Tingay continuò imperterrito a pubblicare la sua classifica sul Telegraph fino alla pensione, nel 1981. A ottobre del 1973, come se nulla fosse accaduto, pubblicò sul giornale il responso annuale: primo Newcombe, secondo Stan Smith, terzo Nastase. Fino al 1979 non si riuscì a rendere la classifica settimanale, nonostante il tennis reclamasse quella cadenza: ogni lunedì iniziava un torneo, che ogni domenica terminava con la finale. Un po’ per i capricci di Blinky, le cui facoltà mentali erano mille volte inferiori a una calcolatrice tascabile a pannelli solari degli anni Ottanta, un po’ per la difficoltà di aggiustare il peso di ogni variabile discussa in seno all’ATP e di controllare, una a una, le voci di ciascun giocatore. 

Con il Ramo-ranking ormai collaudato e non più messo in discussione dall’ITF e dalle federazioni nazionali, consapevoli di aver perso per sempre il controllo sull’organizzazione del tennis dei professionisti, nel 1985 Simon Ramo tornò da un viaggio in Italia con una delle sue illuminazioni. Si inventò di aver trovato un manoscritto del Machiavelli, dedicato a un gioco molto simile al tennis, e si offrì di tradurlo per Rawson&Associates. Lo intitolò Tennis by Machiavelli: «Il riscaldamento è usato da molti per stirare i muscoli e le giunture, mentre è una missione di intelligence: serve per passare in rassegna punti di forza e debolezze dell’avversario. Ci si aspetta che indirizziate i vostri colpi verso il dritto e il rovescio dell’avversario in maniera equa. Non fatelo: individuate il colpo debole giocando spesso verso uno e poi l’altro colpo. Non penseranno male di voi: al più riterranno che siate ancora da scaldare, e che per questo i vostri colpi risultino imprecisi. Le dimensioni del campo vanno bene per i campioni: per i giocatori di club il rettangolo è troppo grande, quindi bisogna far lavorare la testa. Essere machiavellici, nel tennis, vuol dire essere furbi, subdoli, ingannevoli, opportunisti, manovratori, cospiratori, sfuggenti». È il credo sfacciato e concretissimo di un primo della classe, di un vero numero uno.

(*) Questo articolo è stato originariamente pubblicato nel giugno 2020. Lo riproponiamo oggi, nel giorno del cinquantennale della prima classifica computerizzata.

Note

[1] Consiglio il libro di Luca Marianantoni Atp Story Storia e statistiche dei primi quarantanni dellAtp, pubblicato nel 2014 da EffePi libri.

[2] McCauley, evidentemente non condizionato dal cuore, pur essendo australiano penalizzò Ken Rosewall e scelse Laver, Ashe, Okker, Rosewall, Newcombe, Roche, Graebner, Drysdale, Gonzales, Ralston.

[3] Collins classificò primo Rod Laver, poi Ashe, Rosewall, Roche, Okker, Newcombe, Graebner, Ralston, Drysdale e Gonzales.

[4] In compenso, neanche cinquant’anni dopo la professione del giornalista ha subìto uno smottamento di reputazione e un crollo delle barriere all’accesso tale che nessuno si sognerebbe più di domandare pareri vincolanti a un rappresentante di una categoria che ha smarrito quasi tutta la sua credibilità.

[5] Media punti e bonus sembrano concetti del tutto anacronistici, eppure il sistema tenne fino al 1989, quando si decise di passare all’attuale classifica basata sul Best 14, che permette di scartare i risultati peggiori.

[6] Piero Toci, numero 175, detto “il professore” perché serviva con un movimento talmente lento da sembrare un maestro intento a insegnare la meccanica della battuta. Laureato in smorzate, agli Australian Open 1969 batté Manolo Orantes.

[7] Panatta salvò 11 match point al primo turno di Roma 1976, di cui dieci alla risposta, a Warwick. Finì con il vincere il torneo. L’anno dopo, al Queen’s, forse successe qualcosa di simile: Panatta ricorda che cancellò vari set point dall’1-5 nel primo set fino a vincerlo 7-5, e Warwick si ritirò per la rabbia; lo score invece dice che Warwick si ritirò sotto 4-6 9-8 2-0.