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LA STORIA

Brooksby, la stanza 515 e il foglio di carta

Il processo e la sentenza a carico di Jenson Brooksby hanno evidenziato due aspetti: quanto sia facile incorrere nell'infrazione dei mancati test antidoping, e la sconcertante leggerezza con cui qualche professionista affronta un tema così delicato. Demandare tutto al manager può generare storie come quella che vi raccontiamo in questo articolo.

Riccardo Bisti
29 ottobre 2023

Suo malgrado, il tennis è diventato un ricettacolo di prodotti contaminati, integratori non autorizzati e situazioni più o meno inverosimili per giustificare la positività a un test antidoping. Negli ultimi mesi, la nuova frontiera del settore sembra essere quella dei whereabouts, ovvero l'obbligo di concedere un'ora al giorno di reperibilità per accogliere i vampiri, pardon, Doping Control Officers. La recente squalifica di Mikael Ymer (poi sfociata in un ritiro) è stata seguita da quella di Jenson Brooksby. La lettura delle 22 pagine che condannano l'americano a diciotto mesi senza tennis è inquietante, non tanto per l'integrità del giocatore (non ci sono motivi per pensare che faccia uso di sostanze proibite), quanto perché mette in evidenza due aspetti, soltanto apparentemente in contrasto tra loro. Da una parte, abbiamo scoperto quanto sia facile incorrere in un Missing Test (un mancato controllo: il DCO ti cerca, non ti trova e registra il fatto): basta un dettaglio, una dimenticanza, non sempre accompagnata da chissà quale negligenza... e sei fregato. Dall'altra, la mancanza del senso di responsabilità da parte di parecchi atleti.

Prendono sottogamba un obbligo che li riguarda in prima persona, demandando ad altri (spesso i loro manager) quella che vivono come una fastidiosa incombenza. È successo a Brooksby (in tutta onestà, il suo manager Amrit Narasimhan non ha fatto una gran figura), a Mikael Ymer e in passato a Maria Sharapova, che aveva demandato a Max Eisenbud la lettura di un programma antidoping che, per il 2016, aveva inserito il meldonium tra le sostanze proibite. Il mix tra pigrizia, negligenza e un pizzico di sfortuna può portare a conseguenze estreme, come nel caso del californiano. Già costretto a due interventi chirurgici, non potrà giocare fino al gennaio 2025 per avere saltato tre controlli antidoping tra l'aprile 2022 e il febbraio 2023. La sentenza del Tribunale Indipendente, composto dalla presidente Carol Roberts e dai componenti Erika Riedl e Kwadjo Adjepong, ha evidenziato un pressapochismo non consono a un atleta di alto livello. La sensazione è che – pur concedendogli uno sconto di sei mesi rispetto al massimo della pena – lo abbiano punito più per la superficialità che per l'effettiva intenzione di barare. Detto che la violazione scatta se un tennista salta tre controlli in meno di dodici mesi, i fatti.

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«Il tribunale ritiene che la condotta del giocatore dimostri un alto livello di negligenza. Non ha mostrato alcuna circostanza che spiegherebbe un allontanamento dagli standard richiesti per la sua squalifica»

- Essendo top-100 ATP, Brooksby è stato inserito nell'International Registered Testing Pool (IRTP), la lista di atleti chiamata a dare disponibilità quotidiana ai controlli antidoping. È stato avvisato il 9 dicembre e ha ammesso di “non aver letto nel dettaglio la documentazione” (traduzione: probabilmente non l'ha neanche aperta) e di aver demandato a Narasimhan tutti i suoi obblighi legati all'antidoping. Tra l'altro, non ha sfruttato la possibilità di parlare con lo staff ITIA né di partecipare a un webinar dedicato. In altre parole, si è disinteressato della questione e ha lasciato tutto in mano al suo maanger.

- Il primo test mancato risale al 19 aprile 2022, nella sede dove solitamente si allena. Nel rispetto del protocollo, il DCO ha cercato il giocatore negli ultimi cinque minuti della finestra indicata (è previsto così per evitare che l'atleta abbia alcun preavviso), ma è riuscito a parlare solo con l'agente. “Jenson ha cambiato sede di allenamento all'ultimo minuto e ha dimenticato di aggiornare i whereabouts”. Brooksby non ha contestato l'accusa, anzi, il 18 maggio ha detto che da lì in poi avrebbe fatto un lavoro migliore. A suo dire, il coach Joseph Gilbert aveva avvisato il manager del cambio di logistica per aggiornare i whereabouts, ma che non era stato fatto.

- Il terzo mancato test (anch'esso non contestato) è del 4 febbraio 2023, dopo l'Australian Open e prima della decisione di operarsi. Brooksby avrebbe dovuto trovarsi in Florida (?), invece il suo manager (allo scadere della finestra di 60 minuti) ha informato il DCO che Brooksby si trovava in California perché aveva cambiato i suoi piani. Secondo la testimonianza di Brooksby, quel giorno aveva informato Joseph Gilbert della scelta di non lavorare più con lui (gesto non banale, perché lo seguiva da quando aveva 7 anni) e di essere volato in California per cercare un nuovo coach. L'idea era tornare a Dallas (dove c'era un torneo ATP, il che fa pensare che il punto 51 della sentenza abbia commesso un'imprecisione: non era in Florida, ma in Texas), ma che avrebbe deciso di non farlo. Anche in questo caso avrebbe avvisato il suo agente, ma i whereabouts non sono stati aggiornati.

- Il processo si è dunque concentrato sul secondo test mancato, quello del 4 giugno 2022. Il giocatore aveva dato la sua reperibilità presso l'hotel ufficiale del torneo ATP dì 's-Hertogenbosch (il cui nome è curiosamente sbianchettato nella sentenza), tra le 6 e le 7 del mattino. Alle 6, il DCO Enrique Gonzalez Martinez (che svolge questo ruolo dal 1998, dunque è molto esperto... ed è lo stesso che aveva registrato il test mancato di Mikael Ymer a Roanne, quello fatale) si è recato presso la reception dell'hotel, identificandosi. Gli hanno detto che il giocatore non aveva ancora fatto check-in, e che avrebe dovuto farlo quel giorno. Lo staff dell'hotel (con grande sorpresa del DCO, perché non gli era mai stato permesso prima) gli ha mostrato il sistema riservato delle prenotazioni e ha fotografato lo schermo. Nelle informazioni in merito a Brooksby c'erano due note: “515” e “twin”. Non ha chiesto cosa significasse. Come da protocollo, ha atteso per tutta l'ora e poi ha provato a chiamare il giocatore, vedendosi rispondere la segreteria dopo cinque squilli (Brooksby ha poi detto che il telefono era in modalità silenziosa). A quel punto, non ha potuto far altro che registrare il Missed Test.

- Nelle settimane successive, Brooksby ha chiesto una revisione amministrativa del caso, sostenendo che la sua presenza non fosse stata individuata perché non avevano cercato il suo compagno di stanza, il fisioterapista Paul Kinney. In sintesi, i due erano in hotel dal 31 maggio. La stanza era a nome di Kinney, perché aveva effettuato la prenotazione tramite un sito esterno (tipo Booking, per intenderci) e aveva trovato condizioni economiche migliori rispetto alla prenotazione “ufficiale” a nome di Brooksby, che sarebbe scattata il 4 giugno. Il giorno prima, Kinney ha ottenuto dall'albergo la possibilità di restare nella stanza 515 perché ormai lui e Brooksby si erano sistemati e non volevano cambiare camera. Per questo, dal 4 giugno, la prenotazione a nome Brooksby (dal 4 al 9 giugno) è stata spostata nella camere in cui già si trovava. Si spiega così la nota accanto al suo nome: “515” era il nome della stanza, “twin” il fatto che fosse una camera doppia e non matrimoniale.

Jenson Brooksby ha saltato tre controlli antidoping in meno di dieci mesi

Qualche dritta per utilizzare al meglio l'app (o il sito) in cui i giocatori sono tenuti a compilare i loro whereabouts

- Brooksby sostiene di avere perso la chiave della stanza l'1 o 2 giugno e di averne chiesta un'altra. In quel momento, ha domandato alla reception di aggiungere il suo nome alla prenotazione, proprio per la possibilità di essere cercato per un test antidoping. Gli hanno risposto che non era possibile farlo in via elettronica, dunque si sono appuntati il suo nome in foglio di carta. Va da sé che quel foglio non è mai stato trovato (nemmeno cercato, perchè i giudici l'hanno ritenuto superfluo), e che Brooksby non è stato in grado di descrivere l'impiegato dell'hotel che aveva svolto questa operazione.

- Durante il processo, Brooksby ha chiesto in via principale che fosse evidenziata una negligenza del DCO, il quale non avrebbe fatto tutto il possibile per mettersi in contatto con lui. In via alternativa, che fosse riconosciuta a lui l'assenza di ogni negligenza. Suo malgrado, i giudici gli anno dato torto in entrambi i casi. In merito alla condotta di Gonzalez Martinez, l'hanno definita “ragionevole”, anche perché il giocatore non deve limitarsi a essere nel luogo indicato, ma deve essere anche disponibile e facilmente raggiungibile. I giudici hanno giustificato l'assenza di domande sulle note “515” e “twin” perché, in quel momento, il DCO era concentrato sul check-in del giocatore, non ancora avvenuto. Inoltre, il protocollo non prevede che venga chiesto il numero della stanza in cui si trova l'atleta. Non è stata accettata la richiesta di prendere spunto dal caso Cornet (che finì con un'assoluzione), perché il tentativo di test avvenne all'indirizzo di casa della giocatrice. Quando alla colpa di Brooksby, i giudici hanno individuato almeno quattro accorgimenti che avrebbero facilitato la sua reperibilità. 1) Intanto avrebbe potuto aggiornare sui whereabouts il fatto di trovarsi nella stanza 515. 2) La sua scelta di affidarsi a un foglio di carta per comunicare la sua presenza alla reception è stata ritenuta insufficiente, soprattutto nel mondo informatizzato di oggi. 3) Avrebbe potuto chiedere a Kinney di inserire il suo nome nella prenotazione, cosa che non ha fatto. 4) È stata ritenuta un'ulteriore negligenza la scelta di tenere il telefono in modalità silenziosa.

- Per questo, il giocatore è stato ritenuto colpevole di aver saltato tre test antidoping in meno di un anno. In questi casi, la sanzione può essere compresa tra i 12 e i 24 mesi. Tenendo conto di una serie di fattori (ben dieci, nel punto 89), i giudici hanno ritenuto “alto” il grado di neglienza del giocatore, sia pure con qualche attenuante, concedendogli dunque uno sconto da 24 a 18 mesi.

Detto che Brooksby ha il diritto di ricorrere al CAS di Losanna (e ha già fatto sapere che lo farà), riteniamo che questa sentenza, ancor più di quella di Mikael Ymer, possa essere un prezioso vademecum per tutti i giovani che si affacciano all'alto livello. Il sistema dei controlli antidoping è (giustamente) severo e ben organizzato, dunque non è tollerabile affidarsi a terze persone per una questione così delicata come quella dei propri spostamenti personali. Durante l'udienza dello scorso 10 ottobre, Brooksby ha detto di stare provando a imparare a utilizzare da solo il sistema dei whereabouts, ma che al momento si affidava ancora al manager. Con facile ironia, possiamo aggiungere che avrà tutto il tempo per impararlo, visto che – anche in caso di sconto al CAS – dovrà restare ai box almeno fino alla prossima estate. Per il resto, restiamo della nostra idea. Il concetto di punire chi salta troppi controlli è corretto, ma tre Missed Test in un anno è una restrizione molto severa per i tennisti. Si tratta degli atleti con la logistica più complicata, e forse se ne dovrebbe tenere conto. La soluzione? Aumentare leggermente il numero di possibili test mancati prima di incorrere in sanzione, oppure istituire una percentuale massima di test mancati sul numero di tentativi effettuati. Da marzo a oggi, Brooksby è stato controllato cinque volte. Chissà se qualcuno ci ragionerà. Forse bisognerà arrivare a punire un nome ancora più importante di Mikael Ymer o Jenson Brooksby.