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TENNIS STORY

La maledizione del Quarto di Secolo

L'improvviso ritiro di Ashleigh Barty ha fatto scalpore, ma non è la prima volta che un campione vive una crisi irreversibile allo scoccare dei 25 anni. Ripercorriamo i casi più eclatanti.

Stefano Maffei
3 aprile 2022

“Ho dato tutto”. Le parole hanno un peso nel tennis come nella vita, soprattutto se a pronunciarle è la numero 1 del mondo. Ashleigh Barty le ha confidate (a favore di telecamera) alla sua amica ed ex compagna di doppio Casey Dellacqua. Tre semplici parole, dense di significato, che assurgono a perfetta epigrafe di un'esistenza sportiva troppo breve per saziare l’appetito degli appassionati del bel tennis, ma lunga quanto basta per lasciare un’impronta indelebile. Se non ci fosse il precedente illustre di Pete Sampras, che come lei si ritirò dopo aver giocato e vinto la sua ultima partita ufficiale in una finale dello Slam (correva l’anno 2002 quando Pistol Pete vinse lo Us Open, l’ultimo dei suoi 14 Slam, battendo in finale il rivale di sempre André Agassi), il fatto che l’australiana abbia giocato e vinto la sua ultima partita nella finale dello Slam di casa rappresenterebbe un motivo in più per celebrarne la grandezza. Ma c'è una differenza: rispetto all'americano, la Barty lascia da Leader. Lascia da Dominatrice. Al contrario, per Sampras la gloriosa cavalcata di venti anni fa fu l’ultimo grande acuto, a 31 anni appena compiuti, dopo che nei ventiquattro mesi precedenti era rimasto a secco di titoli a qualsiasi livello di categoria (l’ultimo torneo vinto dallo statunitense prima del celeberrimo Us Open’02 fu Wimbledon’00, cosa che sancì una clamorosa doppietta Slam come chiusura del suo ricco palmares, un unicum nel panorama storico tennistico). Il caso dell’australiana, per quanto particolare, non rappresenta una prima volta. In epoca recente c’era già stato il caso di Justine Henin, ma prima dell’insorgere del nuovo millennio diversi plurivincitori Slam sono rimasti vittime di quello che si potrebbe definire “avvento del quarto di secolo”. Il compimento del 25° anno ha rappresentato per alcuni un momento di profonda flessione, per altri il canto del cigno a seguito del quale è cominciata una discesa irreversibile, per altri ancora ha sancito l’inaspettata resa dovuta a un tracollo mentale, all’incapacità di resettare una memoria negativa, o all’impossibilità di accettare di non essere più il migliore.

Il caso che può solleticare sin da subito le corde mnemoniche degli appassionati è quello di Bjorn Borg. Lo svedese inizia il 1981 da primo giocatore del mondo, vince per la sesta e ultima volta il Roland Garros (il giorno dopo il compimento del suo 25° compleanno) e a Wimbledon va alla caccia del sesto sigillo consecutivo, del 12° titolo dello Slam (avrebbe eguagliato il primatista Roy Emerson) e della quarta doppietta (già suo il record di 3) Parigi-Londra. Nel tempio del tennis però, accade qualcosa di inaspettato: dopo 5 successi consecutivi viene sconfitto da John McEnroe in 4 set e cede la prima posizione mondiale, senza più recuperarla. Borg gioca una buona partita (come buona era stata fino a quel momento anche la stagione), a tratti persino meglio della finale vinta contro lo stesso avversario l’anno precedente, ma qualcosa è cambiato, avverte che non dipende più solo da lui. Sente che quel luogo che a lungo l’ha glorificato adesso sta per sancire l’ineluttabilità del passaggio di consegne. “Che tu possa incontrare il trionfo e il disastro e fronteggiare quei due impostori nello stesso modo”. La frase di Rudyard Kipling esposta all’ingresso del Centre Court dell’All England Club si rivolge ad un TU impersonale, ma mai come in quella domenica di luglio e nelle settimane successive che condussero alla finale degli Us Open, parve chiaro quanto quelle parole fossero dirette a Borg. All’atto finale di New York, va in scena un nuovo scontro tra i due e lo spettro della fallibilità si materializza definitivamente dinnanzi all’Orso svedese: Borg viene sconfitto (per la quarta volta su quattro in finale a Flushing Meadows), rientra negli spogliatoi e crolla. Salta la cerimonia di presentazione e fugge dallo stadio. Non rimetterà più piede in campo per il resto della stagione. Nei successivi due anni giocherà solo a Montecarlo e con scarsi acuti, per poi dire basta, prima di tentare un ultimo ritorno dal sapore amarcord nei primi anni ’90, con risultati penosi.

In epoca recente c’era già stato il caso di Justine Henin, ma prima dell’insorgere del nuovo millennio diversi plurivincitori Slam sono rimasti vittime di quello che si potrebbe definire “avvento del quarto di secolo”.
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La celeberrima finale del Roland Garros 1984 ha segnato l'inizio del declino di John McEnroe

Anche il suo più grande rivale John McEnroe rimane vittima del mefistofelico numero 25. Nel 1984, l’anno delle 25 candeline, Johnny Mac gioca la stagione migliore della sua carriera (a parere di chi scrive la miglior stagione di sempre, macchiata da sole 3 sconfitte): domina Wimbledon e Us Open, e sulla terra rossa del Roland Garros esibisce un tennis straordinario. In finale concede 5 games a Lendl nei primi due set, prima di perdere il confronto con se stesso prima ancora che con l’avversario. Cede 7-5 al quinto ma quella partita lo seguirà come un’ombra per il prosieguo della carriera, e lo tormenterà anche dopo il ritiro. L’anno seguente ha inizio la parabola discendente: cede definitivamente la prima posizione mondiale e raggiunge la sua ultima finale Slam a New York, dove viene però nettamente sconfitto da Ivan Lendl. L’impressione generale è che l’aura magica dell’anno prima sia come svanita, nessuno sa spiegarsi la repentina involuzione di risultati, soprattutto a livello Slam. Nemmeno il diretto interessato seppe farlo, tant’è che nel 1986 si concesse un anno quasi sabbatico sancendo il rientro alle gare solo nell’amato torneo di casa degli Us Open, dove venne eliminato al primo turno. L’americano non gettò comunque la spugna, continuò a giocare fino al 1992 ma conscio di essersi lasciato il meglio oramai alle spalle. Lo scrittore Jules Renard diceva “Aggiungi due lettere a Paris, ed è il Paradis”... Quelle due lettere McEnroe non le ha mai trovate, e forse le sta ancora cercando.

Ancor più di Borg e McEnroe, la vicenda tennistica più simile alla Barty è forse quella riguardante Mats Wilander. Correva l’anno 1988 e lo svedese aveva appena compiuto un’impresa senza precedenti nell’Era Open: vincere tre Slam su quattro nello stesso anno, su due superfici diverse. Impresa riuscita anche a Jimmy Connors nel 1974, ma all’epoca gli Australian Open si giocavano sull’erba di Kooyong, così come gli Us Open si giocavano sui prati di Forest Hills. Tre dei quattro Major, dunque, venivano disputati sull’erba. Wilander era riuscito ad imporsi sul cemento australiano di Melbourne e su quello americano di Flushing Meadows, ed infine sulla terra del Roland Garros. L’erede naturale di Borg sembrava imbattibile a livello Slam, forte di una resistenza fisica e una forza mentale aliene. Terminò l’anno al numero 1 del ranking. Toccato l’apice, si presentò l’anno seguente, quello dei 25, pronto a dare il via al suo regno. E invece... Già in Australia, abbastanza clamorosamente, perde al secondo turno. Il 30 gennaio cede la prima posizione ad Ivan Lendl e chiuderà l’anno al 12° posto! Non solo non raggiungerà mai più una finale Slam, ma nei restanti anni di carriera vincerà un solo torneo in quel di Itaparica. Formalmente, rispetto alla Barty, Wilander ha continuato a lottare ben oltre il suono della campana, ma nella sostanza entrambi si sono disconnessi dal tennis nell’esatto momento in cui non avevano più motivazioni. Come possa un atleta dominante, al culmine della carriera, svuotarsi di motivazioni ed evaporare come acqua al sole rimarrà comunque un interrogativo al quale né l’uno né l’altra potrà forse mai fornire una risposta soddisfacente.

Dopo il compimento dei 25 anni, Boris Becker ha vinto solo uno dei suoi 6 titoli Slam

Nel suo magico 1988, Mats Wilander vinse tre Slam su quattro. Non si sarebbe più confermato a quei livelli

Anche gli Eravamo Re del Serve & Volley Boris Becker e Stefan Edberg (autori di un’appassionante trilogia a Wimbledon tra 1988 e il 1990) non sono sfuggiti alla “Regola del 25”, sia pure con peculiarità specifiche. Il tedesco di Leimen nel 1992, nonostante un inizio di stagione altalenante, conclude l’anno alla grandissima vincendo ben 3 tornei consecutivi: Basilea, Bercy e soprattutto le Atp Finals di Francoforte dove il 22 novembre spegne le sue 25 candeline direttamente in campo, al termine dell’epica semifinale vinta contro Goran Ivanisevic (il giorno dopo non lascerà neppure un set al n.1 Jim Courier). Bum Bum comincia l’anno seguente esattamente come aveva concluso il precedente: vincendo. Fa suo il primo torneo dell’anno a Doha battendo nuovamente il Ivanisevic. Dato da tutti come favorito all'Australian Open cade clamorosamente al primo turno, battuto in 5 set dallo svedese Anders Jarryd che all’epoca era praticamente già un ex giocatore. Da quel momento la carriera di Becker subirà un rapido declino dovuto ad una concomitanza di fattori tra cui infortuni, il matrimonio con la modella Barbara Feltus, che lo risucchierà al centro di controversie questioni razziali, ed infine problemi con la magistratura tedesca per evasione fiscale. A fine anno mancherà (per la prima volta) anche la qualificazione al Masters di fine anno. Rispetto ai campioni precedentemente citati, Becker riesce in qualche modo a frenare la repentina caduta ed a sfatare la maledizione del quarto di secolo centrando nel 1996 (dopo 3 anni di pochissime luci e moltissime ombre) in Australia il sesto (e ultimo) Slam della sua pittoresca carriera.

Lo svedese Stefan Edberg, classe ’66, alla fine del 1991 chiude l’anno al primo posto del ranking ATP, per la seconda volta in carriera. È reduce da un’annata strepitosa ed è all’apice del suo gioco e della fiducia. Ha 25 anni. L’anno seguente cederà la vetta del ranking all’americano Jim Courier e inizierà una parabola discendente e costante che lo condurrà al ritiro a soli 30 anni. Anche lui però, come Becker, si concederà il lusso di intascare un ultimo Major, nella città che non dorme mai e lo farà in modo sorprendente: cedendo 7 set negli ultimi quattro incontri e recuperando un break di svantaggio al quinto set sia negli ottavi contro Richard Krajicek, che nei quarti contro Ivan Lendl, e infine in semifinale contro Michael Chang (partita che con le sue 5 ore e 26 minuti detiene ancor oggi il record di durata per un match giocato a Flushing Meadows). In finale trova un Sampras riposato, ma riesce in un ultimo capolavoro che di fatto rappresenta il suo canto del cigno. Per usare un parallelismo con la vita, se il declino (e conseguente ritiro) sportivo equivale alla morte nella vita reale potremmo asserire che Stefan Edberg, il gentleman del tennis, se n’è andato per cause naturali... Non è sopravvissuto tennisticamente all’evoluzione del gioco. Il suo classicismo, le sue movenze da ballerino del Bolshoi non hanno tenuto il passo della nuova generazione di tennisti 2.0. Becker ed Edberg, così diversi ma così vicini che anche il Destino ha riservato loro le stesse carte.

Ashleigh Barty è l’ultima appartenente a questo novero di celebrità connesse alla singolare ricorrenza che affligge certi campioni alla soglia del quarto di secolo. La nativa di Ipswich lascia il tennis all’apice, guardando tutti dall’alto in basso, risparmiandosi così rovinose cadute. Ci priva dell’unica certezza in un tennis femminile sempre più incerto ed anarchico. A soli 25 anni ha preferito disattendere le aspettative degli altri, piuttosto che tradire i suoi sentimenti. Ha scelto di non mandare in scena la solita commedia tennistica fatta di ascesa, caduta, risalita, addio e gloria. Ha scelto una soluzione meno commerciale, più d’essai, tremendamente coraggiosa e matura. “Ho dato tutto” ha detto, però visto il palmares certamente di tutto rispetto (3 Slam e 15 tornei vinti nel circuito maggiore) ma comunque concluso in una fase fertile della carriera, in pieno work in progress, potremmo anche leggerla come “Il tennis non è tutto”. Verità da vendere, ma anche tante domande che rimarranno irrisolte e che continueremo a porci quando scorreranno le immagini del suo retaggio sportivo con i video dei suoi velenosissimi back, un acume tattico e una tenuta mentale fuori dal comune, e il dritto devastante. Forse l’unica risposta, se vogliamo un po' kafkiana e un po' romantica allo stesso tempo, la potremmo ritrovare sempre in quel numero, 25, e in quella maledizione che ciclicamente pare tornare a perseguitare gli appassionati di tennis per reclamare anzitempo l’anima splendente di un campione con ancora tante pagine da scrivere.