The Club: Bola Padel Roma
INTERVISTA ESCLUSIVA

La nuova vita di Ivan Ljubicic. E su Federer dice che…

Il coach di Roger Federer ha fondato uno sports group che sta crescendo notevolmente. E su Federer dice che «vorrebbe giocare per sempre! Wimbledon è il primo target e tennisticamente non ha problemi anche quando sta settimane senza giocare». E su Sinner e Musetti…

intervista di Federico Ferrero
15 dicembre 2020

Ivan Ljubicic non ha tempo per annoiarsi. «Se qualcuno mi avesse detto che sarei stato in ufficio dalle otto del mattino alle sei di sera, gli avrei dato del matto. Però meglio così, che non stare a casa a far niente». A 41 anni è già stato numero 3 del mondo – davanti a lui, solo Federer e Nadal; ha iniziato la carriera di manager seguendo Tomas Berdych, quella di coach accompagnando Milos Raonic. Prima, va da sé, della chiamata alla corte di Federer, di cui è stato il deus ex machina nei favolosi anni della rinascita, 2017 e 2018.

Approfittando dei mesi di pausa forzata del 2020, si è tuffato nella sua nuova creatura, la LJ Sports Group. Lui e la sua squadra hanno già messo sotto contratto Borna Coric, Daria Kasatkina e, fuori dal rettangolo di gioco, l’asso della Formula Uno Nico Hülkenberg e il centrocampista dell’Inter Ivan Perisic.

Sta studiando da manager a tempo pieno?
«No, non faccio l’agente. Sono il proprietario della società. Finché Roger giocherà, innanzitutto sarò il suo coach. Poi, ovviamente, mi occupo di alcune trattative anche in prima persona. Ma ci tengo a specificare che non siamo solo un’agenzia, il mio è uno sports group nel vero senso della parola: abbiamo coach, preparatori atletici, fisioterapisti, avvocati. Stiamo anche pensando di ingaggiare del personale medico. Da marzo a oggi, abbiamo assunto dodici persone. Tra loro c’è Richard Evans, che lavorava per l’ATP; John Morris, che arriva dalla IMG, Carlo Alberto Romiti da Babolat…»

«Tennisticamente Federer non ha problemi. Anche quando sta settimane senza giocare, è incredibile la facilità che ha nel ritrovare le sensazioni. Può sembrare una dote naturale, ma non è una cosa che arriva dal nulla: sono le migliaia e migliaia di ore di ripetizione, che hanno costruito questa sua apparente scioltezza»

E avete preso Matteo Berrettini. Un bel colpo anche se, in quest’anno bislacco causa covid, sul campo è andata così così.
«Ovviamente con lui il discorso tecnico non vale, è già in ottime mani, chi lo ha cresciuto ha fatto un lavoro eccezionale. A me stupisce che sia stata considerata una cosa quasi normale, ma Matteo è un giocatore partito a inizio 2019 dai challenger e che ha finito l’anno al Master. Non mi risulta ci sia riuscito nessun altro, da quando c’è il ranking mondiale. Il mio primo obiettivo è stato parlarci, capire le sue problematiche. Sto creando un team, intorno a lui, che gli dia una mano per gli aspetti commerciali ed economici in senso più ampio. Per fare in modo che sia più tranquillo e sistemato».

Investire sul tennis italiano è diventato un affare.
«Sicuramente è un gran momento. Questa generazione che sta crescendo è partita dal lavoro fatto 10-15 anni fa: i Fognini e i Seppi, i Bolelli, i Cecchinato hanno tirato la volata ai ragazzi di adesso; intanto, le donne hanno vinto due Slam e le Fed Cup. Nel tennis è più semplice seguire quello che hanno fatto altri, avendo un riferimento davanti, invece di essere quello che taglia il ghiaccio. In Italia il tennis maschile, a un certo punto, era quasi sparito. Adesso, a parte i giocatori, c’è il NextGen, è arrivato pure il Master a Torino…»

HEAD

E il suo core business, se così si può definire Roger, come se la passa?
«Tennisticamente non ha problemi. Anche quando sta settimane senza giocare, è incredibile la facilità che ha nel ritrovare le sensazioni. Da fuori può sembrare una dote naturale, ma non è una cosa che arriva dal nulla: sono le migliaia e migliaia di ore di ripetizione, che hanno costruito questa sua apparente scioltezza. Come se venisse tutto senza sforzo: ma lo sforzo lo ha fatto eccome, nella sua vita da atleta. Noi stiamo andando avanti cercando di preparare un anno normale. Dal 14 dicembre siamo a Dubai ad allenarci; poi, chi lo sa».

Intanto compirà 40 anni, anche se nello sport non sembra più essere un problema. E si dovrà fare una scelta, o più di una.
«Infatti lui vuole giocare per sempre! (ride). Il primo obiettivo è ovvio, prepararsi per i primi impegni del 2021, quando si potrà giocare. Poi vedremo: potrei dire Wimbledon ma è scontato, quello è sempre il primo target per lui. Discuteremo della programmazione quando ci saranno notizie sufficienti: difficile farlo ora, senza punti fermi».

«Federer vorrebbe giocare per sempre! E Wimbledon è sempre il primo target per lui»

Roger Federer è tornato ad allenarsi e svolgerà la sua preparazione invernale a Dubai insieme a Ivan Ljubicic, ma la sua partecipazione all'Australian Open è ancora in dubbio

Lavorate insieme da cinque anni giusti. Con il tempo siete diventati amici, al di là del contratto di lavoro?
«Lo eravamo già, quando giocavo non eravamo solo colleghi. Quando volevo smettere, nel 2011, la persona che mi convinse a rimettermi in pista per giocare un altro anno fu proprio lui. Il nostro rapporto personale esisteva già allora ed è stretto anche oggi. Parliamo di tante cose personali, non solo di tennis».

Questo tennis del 2020 sottovuoto, senza pubblico, con gli applausi finti, le è piaciuto o l’ha intristita?
«Secondo me ogni torneo giocato, vista la situazione nel mondo, è stata una benedizione».

Ha snaturato o, per dirla col gergo del calcio, ha falsato i risultati?
«Non credo. Forse ha aiutato un po’ i giovani, perché lo stadio pieno emoziona di più chi ha poca esperienza. Ma poi, se guardo com’è andata, Rublev ha iniziato e finito l’anno bene. Thiem ha fatto la finale in Australia e poi ha vinto lo US Open. Medvedev ha proseguito la sua crescita; Zverev anche, è migliorato sul lato del dritto e ha giocato la sua prima finale Slam. Forse, l’unico che ha perso un po’ il filo è stato Tsitsipas».

«Federer e Nadal sono innamorati del tennis. Quando smetteranno di giocare, non spariranno. Ci sono altri numeri uno che, una volta smesso, nessuno li ha più visti. Roger e Rafa no, loro resteranno»

Roger lo ha guardato, il tennis?
«Beh, quest’anno non è che abbia passato molto tempo con lui. Durante le vacanze no: è uno che quando stacca, stacca. In generale, non è che guarda una partita cinque minuti, poi cambia canale, poi torna a seguirla. Se guarda, guarda tutto. Se non guarda, non sa neanche chi abbia vinto».

Al di là del poco tennis ufficiale, si sono giocate esibizioni, come la UTS di Mouratoglou. Che ne dice?
«Ho visto qualcosa. C’erano alcune regole estreme: i set a tempo, le carte speciali. Comunque io appoggio moltissimo un’iniziativa come il Tie-break Tens, le esibizioni a punti che si giocano da qualche anno. Basta solo non pensare di mettere queste regole nel circuito principale: se è una cosa parallela, non vedo il problema. Anche per la UTS».

Mouratoglou dice che è una formula nata per attirare i giovani, visto che il tennis ha il problema di essere uno sport seguìto dai vecchi.
«Sono d’accordo che ci sia il problema del pubblico giovane. Non sono certo che la soluzione sia quella. O solo quella. Bisogna cercare di far diventare cool il tennis come sport. Come? A me, per esempio, piacerebbe vedere sul mercato dei videogame un po’ più interessanti di quelli che ci sono. Oppure, una serie su Netflix come La regina degli scacchi, ma dedicata al tennis. Per promuovere il tennis, non credo sia necessario smontarne le regole».

«Mi piacerebbe vedere sul mercato dei videogame di tennis più interessanti. Oppure, una serie su Netflix come La regina degli scacchi. Per promuovere il tennis, non credo sia necessario smontarne le regole»

A proposito di interesse: dopo un’era clamorosa come quella di Federer, Nadal e Djokovic, è pensabile che possa continuare ad attirare nello stesso modo?
«Rimpiazzare Federer e Nadal sarà difficile. Ma non credo che il tennis sia in pericolo come sport: lo si pensava anche dopo Borg e McEnroe, o dopo Agassi e Sampras. Forse, nell’immediato, chi vincerà dopo di loro non avrà lo stesso appeal, lo stesso carisma. Ma magari lo acquisterà nel tempo. Però c’è una cosa che mi consola».

Quale?
«Che entrambi sono innamorati del tennis. Quando smetteranno di giocare, Roger e Rafa non spariranno. Ci sono altri numeri uno che, una volta smesso, nessuno li ha più visti. Roger e Rafa no, loro resteranno».

In quale veste? Tuta o cravatta?
«Beh, non sono io a deciderlo. Nadal ha già la sua accademia. Roger la sua agenzia, e poi ha creato la Laver Cup… Dopodiché non lo so, non posso sapere come andranno le cose. A mio parere, non si dedicheranno a una sola cosa a tempo pieno».

 

«Nello sport esiste un concetto che in inglese ha una parola: legacy. Mi spiego: io ho tutto il rispetto del mondo per un fuoriclasse come Pete Sampras. Però ha vinto, ha smesso, è scomparso. Roger non è solo le sue vittorie ma come gioca, come vive il tennis, come si è comportato, cosa rappresenta per la gente…»

A Parigi, Rafa ha dominato Djokovic e ha fatto 20. Roger si è congratulato per aver pareggiato il record di Slam. Djokovic, alla lunga, sembra attrezzato per vincere più di tutti. Il mondo del tennis ama il dibattito sul GOAT, non può sottrarsi: chi è il più grande?
«La premessa è ovvia: sono il coach di Federer, non un giudice terzo. Detto questo: non c’è dubbio che gli Slam siano la cosa più importante, e che le vittorie Slam siano un parametro corretto per valutare un giocatore. Però l’importanza di questi tornei è questa da 15-20 anni: prima, e nel passato remoto ancora di più, gli Australian Open erano meno importanti di Roma o di Monte Carlo! Quindi paragonare i risultati di Laver, di Borg e di McEnroe ai tennisti di oggi, contando solo le vittorie Slam, non lo trovo sensato. E poi non ci sono solo gli Slam: esistono gli altri tornei, la classifica…»

Però non ha risposto.
«Ma perché secondo me non c’è una risposta secca. Sa quanta gente mi viene a dire che, secondo loro, Roger “è il più grande, qualunque cosa succeda”? Ecco, io non sono convinto che il più vincente sia automaticamente anche il più grande. O che per forza si debba fare un nome solo. Nello sport esiste un concetto che in inglese ha una parola: legacy».

L’eredità.
«Sì, esatto: l’eredità, l’impronta. Mi spiego: io ho tutto il rispetto del mondo per un fuoriclasse assoluto come Pete Sampras. È un campione che ha vinto 14 Slam, un’enormità. E come giocava a tennis, lo ricordiamo? Era fantastico. Però lui ha sempre detto molto chiaramente che gli interessava solo vincere. E che più gli altri lo lasciavano in pace, più era contento. Ed è andata così: ha vinto, ha smesso, è scomparso. Roger e Rafa hanno lasciato un segno importante nella storia del tennis. Roger non è solo le sue vittorie ma come gioca, come vive il tennis, come si è comportato, cosa rappresenta per la gente. Questa loro rivalità infinita, e le loro vittorie, sono cose uniche. Hanno cambiato lo sport. Quello che vediamo adesso nel tennis è il risultato di ciò che loro due hanno fatto dal 2005 in poi. Hanno “creato”, in un certo senso, anche Djokovic, che ha dovuto trovare il modo di affrontarli e batterli. E anche tutti quelli che sono arrivati dopo, perché si sono dovuti attrezzare sapendo di doversela vedere con due mostri».

Ivan Ljubicic con Severin Luthi, capitano di Davis della Svizzera, spesso part-time coach e grande amico di Roger Federer

Per tutti gli altri che non fossero Djokovic, però, la vita nel tennis di vertice è stata un inferno.
«Per forza: hanno trovato tre fenomeni che, oltretutto, giocano in modo totalmente diverso e, oggi, hanno un capitale di esperienza senza eguali. Se un giocatore avesse dovuto affrontare, che ne so, Djokovic, Murray, Ferrer e Berdych, se aveva certe caratteristiche - e ovviamente la qualità sufficiente per sostenerle - poteva anche pensare di batterli tutti. Ma tre così forti e così differenti, no. Wawrinka, per esempio: quando becca le settimane giuste, con il suo tennis è capace di “ammazzare” tutti. Tutti tranne Federer, soprattutto fuori dalla terra: perché Roger non lo puoi solo sfondare a bastonate, non ci riesci. Se solo una volta, nella storia del tennis, un giocatore li ha battuti tutti e tre nello stesso torneo, Nalbandian a Madrid 2007, c’è un motivo».

Novak ha anche fatto altro. Ha creato un’unione tennistica nuova, la PTPA. Federer e Nadal non sono stati concordi e sono rimasti a sostegno dell’Atp. Lei cosa ne pensa?
«Non essendo più giocatore, non ho seguìto la cosa con la massima attenzione. Senz’altro capisco le buone intenzioni. Se l’obiettivo è far pesare di più i giocatori, aumentare la percentuale del prizemoney che va a chi gioca, sono idee giuste. E mi rendo conto che i giocatori più indietro in classifica possano sentirsi meno rappresentati, perché sono economicamente più deboli. Però i tennisti lo sanno, che il nostro mestiere non è una professione socialista: siamo in campo da soli, uno contro l’altro, per vincere. E assicurarci una fetta grande il più possibile di montepremi, togliendola agli altri».

Ma l’obiezione è proprio che, con il sistema attuale, le star guadagnano tantissimo mentre gli altri giocatori fanno la fame, o quasi. E magari smetteranno di giocare.
«Sì, ma se fai un’altra associazione che poi, alla fine, elegge i suoi rappresentanti, si creeranno gli stessi problemi attuali perché, alla fine, di soldi devi sempre andare a discutere con i rappresentanti dei tornei. L’ATP Tour non sarà perfetto, ma era stato creato anche per dare denaro alle qualificazioni, ai doppisti, per ridistribuire un po’. Se la crisi dovuta alla pandemia dovesse continuare e ci fossero, per assurdo, solo esibizioni, a guadagnare chi sarebbero? Soltanto i grandi campioni. Se i tornei potessero scegliere, vorrebbero avere sempre meno giocatori e, possibilmente, solo i più famosi».

«Sinner è puro talento, tecnico e fisico. Sembra essere anche un super talento mentale. Queste tre cose insieme servono, se si vuole un Alberto Tomba nel tennis»

A New York, un tennista molto sindacalista e pensante come Gilles Simon ha detto che l’ATP non è vicina ai tennisti.
«Si può migliorare la comunicazione, questo sì, lo chiedono in tanti. Ci vorrebbero, che so, dieci persone che di mestiere parlassero continuamente con i giocatori. Perché ci sono i rappresentanti dei tennisti, che si esprimono per i loro colleghi, ma non è il loro lavoro: i giocatori è già tanto che partecipino al Council, non è che poi possano mettersi a scrivere le relazioni, a curare i rapporti con l’ATP, a far girare le informazioni. Sono già impegnati a giocare».

Si parla di unificare ATP e WTA. Succederà, magari nel 2021?
«Non è la mia materia. Non so dire se sia una soluzione praticabile, unificare i due Tour. Nel caso, non credo che il tennis maschile ci rimetterà, come dicono alcuni: mi pare siano più forti economicamente, ma per il tennis maschile il Tour femminile potrebbe essere un di più. Un evento misto come la Hopman Cup, per esempio, a me piaceva tantissimo, vorrei si tornasse a giocare. Semmai, se parliamo del discorso televisivo, oggi vedi una partita di qua, una di là… Come diritti e metodi di trasmissione si può lavorare molto per ottimizzare».

Nel nuovo anno ci sarà anche un nuovo top 10 italiano, che arriva dall’Alto Adige?
«Ah, beh, Sinner è puro talento, tecnico e fisico. Sembra essere anche un super talento mentale. Queste tre cose insieme servono, se si vuole un Alberto Tomba nel tennis. Secondo me fa bene a dire che finora ha vinto solo un ATP 250 a Sofia, perché sa quanta strada si deve fare per arrivare in cima. Comunque, per me, il suo risultato dell’anno è aver messo in difficoltà Nadal a Parigi».

E Musetti?
«A Roma ha giocato un torneo fenomenale, un tennis incredibile, da top 15. Quindi vuol dire che quel livello ce l’ha. La cosa complicata, adesso, sarà continuare a crescere e assestarsi. Ma avere altri giocatori italiani che spingono e ti tolgono un po’ di pressione, come Fognini, come Matteo, o Jannik, certamente lo aiuterà».

Discutendo di GOAT con Ivan Ljubicic, mi sovviene questa pagina di Vladimir Dimitrijević, tratta da “La vita è un pallone rotondo”.
«Mettetela dove volete, gente così, su un campo di calcio, su un prato, in un vicolo, su una spiaggia, e nel giro di dieci minuti si formano capannelli di persone, le casalinghe posano i sacchetti della spesa per contemplare il fenomeno. Intendiamoci: Pelé, Platini, Beckenbauer sono grandi giocatori. Ma per il popolo non sono dei “signori”. La leggenda di Kaiser Franz non mi interessa. Beckenbauer incarna il genere del giocatore perfetto, del professionista. Oggi è presidente di una delle più grandi squadra del mondo; imperturbabile, sempre in cravatta, inforca occhiali d’oro e continua a vivere un’esistenza che non mi appassiona per nulla. È come quei poeti accademici che consultano i rimari, si scelgono temi raffinati e diventano, nel migliore dei casi, epigoni di Paul Valéry. È ammirevole, ma non è niente. Quando Don Diego fa il suo ingresso in un qualsiasi bar, tutti gli vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no, aspettano che il giro lo paghi lui».