Gli stavano per sparare, ma il tennis lo ha salvato
La straordinaria storia di Samuel Jalloh, 38enne sierraleonese costretto a mischiare la passione per il tennis alla sanguinosa guerra civile nel suo Paese. Quando stava per essere giustiziato, un soldato nigeriano lo ha riconosciuto perché avevano giocato a tennis, lasciandolo andare. È stato portabandiera agli All African Games 2007, oggi vive a Liverpool e fa il coach-motivatore.
Riccardo Bisti | 21 dicembre 2020 |
Quella domenica del 1998, Samuel Jalloh pensava di morire. Pensava di fare la stessa fine del suo piccolo amico Alimamy, morto qualche anno prima tra le sue braccia. Dalle foreste nei pressi di Freetown, capitale della Sierra Leone, si potevano vedere le esplosioni causate dai bombardamenti di una guerra civile senza senso, durata oltre dieci anni e capace di causare 50.000 morti. Un giorno, Samuel e Alimamy si trovarono ad assistere alle ennesime esplosioni dopo aver giocato a tennis. Dopo aver fatto qualche passo che lo distanziò dal suo amico, Jalloh ha sentito aprire il fuoco. Si è voltato e lo ha visto crivellato di colpi. I proiettili di un fucile d'assalto AK 47 lo avevano ucciso brutalmente. È morto tra le sue braccia, in preda agli spasmi. Quell'episodio gli ha dato la consapevolezza che il tennis avrebbe potuto essere uno strumento per il riscatto. Non tanto per i 250 dollari che spettavano ai componenti della nazionale giovanile del Sierra Leone (sufficienti a mantenere la famiglia per sei mesi e pagarsi gli studi), ma per onorare l'amico scomparso.
Al diavolo le opinioni del padre adottivo, che già lo immaginava medico. Al diavolo le sue convinzioni: “Se giocherai a tennis, ti taglierò le dita. Il tennis è uno sport per bianchi”. Nulla avrebbe fermato Samuel... se non la morte. Durante la guerra tra il RUF (Fronte Rivoluzionario Unito) e le forze governative, è capitato spesso che lo arrestassero o imprigionassero. “Le forze governative erano supportate dai nigeriani – racconta – i quali, non essendo del posto, non sapevano chi fossero i ribelli. Visto che io ero muscoloso, venivo identificato come tale. Tutti ci impegniamo per essere in forma, ma per me fu un problema”. In effetti, circa 10.000 giovani furono assoldati dal RUF con un violento lavaggio del cervello, e i civili ne avevano paura. Ma lui non ne faceva parte. Non ne faceva parte neanche in quella domenica mattina del 1998, quando fu rapito insieme a 12 amici e portato in una prigione militare. “Cosa abbiamo fatto, dove ci state portando?”.
A un certo punto, un militare nigeriano lo ha chiamato per nome. “L'ho riconosciuto. Era Julius, un ragazzo nigeriano con il quale avevo giocato a tennis e ci eravamo allenati insieme. Mi ha semplicemente detto di correre, ma io sapevo come funzionava: davano l'illusione di lasciarti andare e poi ti sparavano alla schiena, col pretesto che stessi fuggendo. Ero convinto che succedesse anche a me, pregavo, pensavo ai miei genitori... Ma lui l'ha detto ancora una volta: 'Ti lascio andare, scappa e nasconditi'. Allora sono fuggito e credo che neanche Usain Bolt mi sarebbe stato dietro. Julius? Non l'ho mai più visto. Ma quel giorno il tennis mi ha salvato la vita”. Mai affermazione più azzeccata. Quel giorno, il tennis non lo ha salvato da una vita sedentaria, da dilemmi interiori o dalla povertà. Gli ha permesso di essere ancora vivo. Un amore salvavita, nato casualmente una decina d'anni prima in un Paese... impensabile.
La Sierra Leone possiede il triste primato di mortalità infantile: festeggiare il secondo compleanno è un privilegio per pochi bambini. Lui fu il primo ad arrivarci, dopo che tre fratelli non ce l'avevano fatta. Quando aveva sei anni fu adottato da un'altra famiglia. La matrigna faceva la taglialegna nella giungla nei pressi di Freetown. Un giorno, accompagnandola, si imbatté nell'Hill Station Club, ritrovo per benestanti sin dai tempi delle colonie. C'era anche un campo in cemento dalle condizioni sorprendentemente buone, dato il contesto in cui si trova. Gli piacque subito, ma notò che c'erano soltanto bianchi a giocare. Incurante delle difficoltà, iniziò giocando con le mani, poi con un pezzo di compensato. Bastò per farlo diventare uno dei più forti del Paese. La gente diceva: “Se soltanto avesse una racchetta...”. Jalloh giocava anche a calcio, nel ruolo di portiere. A suo dire, sarebbe arrivato in nazionale, ma gli piaceva di più il tennis. Quando lo disse al suo allenatore, si sentì rispondere così: “Ok, se sei ubriaco, aspetto che torni sobrio. Nessuno gioca a tennis in Sierra Leone”. Nessuno tranne Samuel Jalloh.
Dai e dai, la sua costanza fu premiata e finalmente vinse il torneo che permetteva di entrare nella nazionale giovanile. “Ricordo perfettamente quando tornai a casa dopo quel successo: erano 4 miglia a piedi, pensai al mio amico Alimamy e a quanto sarebbe stato orgoglioso di me. Il giorno della sua morte la sua vita è cambiata, e sarò per sempre grato al tennis”. Il lieto fine c'è stato anche se non si è verificato sul Centre Court di Wimbledon e – dunque – sulle prime pagine dei giornali. La carriera di Jalloh è stata decisamente modesta: il sito ITF ricorda cinque apparizioni nei tornei junior tra il 1998 e il 2000, insufficienti anche soltanto a raggiungere una classifica mondiale. Tra i professionisti non ha fatto neanche un tentativo, anche perché una volta gli capitò di conoscere il presidente della federtennis del Gambia. Gli chiese se gli andava di andare a sviluppare il tennis nel suo Paese. “Avevo 19 anni, non ero tra i top-100 (…) e le sponsorizzazioni erano finite, così ho pensato di accettare. E in Gambia ho conosciuto la mia futura moglie, ci siamo sposati due anni dopo”. Ha continuato a giocare fino al 2007, anno in cui ha raggiunto il culmine della sua vita sportiva: ha fatto da portabandiera della Sierra Leone agli All African Games.
Cessata l'attività, si è dedicato alla carriera di coach e – pur restando un giramondo – si è stabilito a Liverpool, laddove insegna, tiene corsi motivazionali e ha messo in piedi una fondazione per dare una mano ai giovani africani (creata insieme a Max Thompson, figlio dell'ex leggenda del Liverpool Phil Thompson). Anche al LTA sostiene il suo progetto, fornendogli materiale. La sua storia è finita in un libro, dall'inevitabile titolo “How Tennis Saved My Life”, pubblicato nell'aprile 2019. Quell'estate, ha avuto la possibilità di presentarlo a Wimbledon. Grazie al libro, la sua storia ha attirato l'attenzione della BBC, che l'ha raccontata con un emozionante cortometraggio a fumetti. Un bel modo per celebrare la sua vittoria nel BBC Inspiration Awards, premio annuale riservato alla storia da cui trarre maggior ispirazione. In realtà è difficile trarre ispirazione dalla sua avventura, e lo è ancora di più estrarre una morale. È però gratificante scoprire come lo sport – in questo caso il tennis – sia riuscito a fare un vero miracolo. Ci sarebbe solo un modo per rendere ancora più bella questa storia: ritrovare Julius, il soldato nigeriano che gli ha salvato la vita in nome dello sport. Chissà se sarà mai possibile.